Oltre che geniale statista, il conte piemontese fu un imprenditore agricolo e non ebbe paura di innovare.
Oltre che statista, il conte piemontese fu imprenditore agricolo.
“In mezzo alle risaie spiegò una perseveranza, un’energia, un’audacia, uno spirito amministrativo e nello stesso tempo d’invenzione, che sarebbero stati sufficienti a trasformare la fisionomia di un regno. Bisognava vederlo all’opera: si alzava all’alba, visitava le stalle, era presente alla partenza dei lavoratori, sorvegliava il loro lavoro in piena canicola sotto il sole ardente”.
A descrivere così Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), alle prese con la grande tenuta di Leri nel Vercellese, fu un suo amico intimo, lo scrittore ginevrino William De La Rive che gli sopravvisse abbastanza da scrivere la sua biografia. Camillo agricoltore? Sì,
perché il giovane, figlio amatissimo ma cadetto senza eredità (il patrimonio sarebbe andato al primogenito Gustavo secondo le regole dell’epoca), doveva trovare da solo un sostentamento e farsi strada.
La sua vocazione non era certo la carriera militare che abbandonò, poco più che ventenne, nel 1831 con grande sollievo dell’esercito, che poco tollerava questo ribelle che pretendeva di scegliere a quali ordini obbedire e non sapeva stare al suo posto. Peraltro nella Torino conservatrice e soffocante di Carlo Alberto il ragazzo era malvisto per le sue idee liberali: la polizia seguiva tutti i suoi passi. Allora il padre, il marchese Michele, che per il figlio minore aveva un debole (avrebbe coperto in seguito molte delle sue perdite al gioco) gli propose di occuparsi della tenuta di Grinzane, nelle Langhe, non distante da Alba (Cn), dove oltre a metà del castello, la famiglia possedeva 200 ettari di colline coltivate a vigneto.
Camillo si buttò nell’avventura con energia e fantasia: per 17 anni fece il sindaco, dirimendo beghe e soprusi in un paesello di 350 anime, costruì case e la chiesa, ripulì i boschi dai malviventi organizzando squadre di contadini, ma soprattutto si occupò di vino. Si racconta che insieme alla marchesa Giulia Colbert Falletti di Barolo si sarebbe avvalso della consulenza
Cavour pensò a come fertilizzare i terreni: fu il primo a importare (e commercializzare) guano in Piemonte di un enologo francese, il conte Louis Oudart, per tentare di produrre un vino rosso che reggesse il confronto con i “grandi” d’oltralpe. Si tratta di una vicenda che alcuni contestano perché non ci sarebbero le prove di questa collaborazione. Per altri si tramutò in un successo: migliorando la tecnica di fermentazione e con l’aggiunta al locale Nebbiolo di piccole quantità di Neiran (uva ormai abbandonata), nacque un ottimo Barolo, vino celebrato ovunque, anche in Francia. Pare che la contessa di Castiglione, quando si trasferì a Parigi nel 1855, ne portasse con sé diverse casse e che Napoleone III, divenuto il suo amante, avesse avuto modo di apprezzarlo.
La vocazione rurale di Cavour trovò modo di esprimersi al meglio quando nel 1835 gli fu affidata la tenuta di Leri e Montarucco che i Cavour avevano acquistato nel 1818: era una distesa piatta e ben irrigata di risaie che, unita a quella vicina di Torrone (comprata da Camillo), superava i 1.200 ettari con un centinaio di salariati e manovali residenti. Camillo amò molto quei luoghi, di cui si occupò fino al 1848, tanto che vi tornò anche quando era ormai immerso nella politica, senza sapere che sarebbe stata proprio la malaria contratta lì a portarlo alla morte appena cinquantenne.
RIFORMATORE.
A Leri (oggi Leri Cavour, disabitata e in stato di abbandono) si rivelò un innovatore. «Praticò la rotazione delle colture, alternandole, aprì canali di irrigazione; provò nuove macchine per vagliare il riso e trebbiarlo; sperimentò nuovi aratri; insomma fu in agricoltura seguace di quello stesso metodo che in politica lo aveva portato ad abbracciare la dottrina liberale: non fermarsi di fronte alle riforme o respingerle, ma ricavare da esse tutto il buono che potevano dare», racconta Italo de Feo in Cavour, l’uomo e l’opera (Mondadori).
All’epoca uno dei problemi delle grandi risaie era quello di superare i sistemi tradizionali e obsoleti di lavorazione del riso, ovvero la battitura dei fasci di risone con bastoni snodabili o il calpestio a opera dei cavalli. Nel 1836 un ingegnere della Lomellina (tra Piemonte e Lombardia), Rocco Colli, aveva perfezionato il trebbiatoio inventato da un milanese, migliorandone il rendimento. Cavour, entrato in contatto con Colli verso la fine del 1843, gliene commissionò uno per la sua tenuta di Leri che dette i risultati
sperati. «In sette anni, dal 1843 al 1850, la produzione di riso era sensibilmente cresciuta, quella di grano e di latte pressoché raddoppiata, quella di mais addirittura triplicata», spiega Rosario Romeo in Vita di Cavour (Laterza).
NUOVE VIE
A questo successo aveva contribuito anche un’altra idea del vulcanico Camillo: importare guano, gli escrementi degli uccelli marini, dall’america (abbondano sulle coste del Cile e del Perù) per concimare i terreni al posto della farina ricavata dagli ossi di animali macellati. Fu il primo a farlo in Piemonte nel 1845 e, vista la resa, negli anni successivi acquistò intere navi di guano dal Perù per rivenderlo ad altri proprietari terrieri.
Non contento, incoraggiò i contadini ad allevare i bachi da seta, come già si faceva in Lombardia, e avviò la coltivazione della barbabietola da zucchero, in questo caso però senza grandi risultati. Anche come allevatore tentò strade diverse dalle solite. «Prendendo come riferimento il 1850, si vede che l’azienda aveva quasi raddoppiato il bestiame, le pecore merinos erano assai preziose e Cavour aveva tentato ogni tipo di incroci per ottenere carne più tenera, latte più abbondante, lana più fine. In tutto il Regno di Sardegna c’erano solo due altre greggi di merinos», racconta Giorgio Dell’arti in Cavour, Vita dell’uomo che fece l’italia (Marsilio).
PUNTI DEBOLI…
Con i braccianti viveva fianco a fianco. “Quella di Leri era un’ospitalità larga, una vita semplice, di fattoria e non di castello: partenza all’alba, ritorni tardivi, desinari abbondanti preparati dalla vecchia donna di casa che portava essa stessa gli arrosti di cacciagione e il risotto fumante sulla vecchia tavola di quercia, attorno alla quale, dopo la frutta, si faceva un’allegra partita di lansquenet (gioco d’azzardo popolare, il cui nome deriva dai lanzichenecchi che lo introdussero in Italia nel XVI secolo, ndr)”, racconta ancora l’amico William De La Rive. E lui stesso scrisse in una lettera: “Qui il contadino è un semplice bracciante, non è disposto come nel resto del Piemonte, ove sfrutta la terra a mezzadria, a resistere a tutte le innovazioni che urtano le sue abitudini inveterate; obbedisce senza ragionare. Basta far dirigere le nuove imprese da gente intelligente e sicura”.
Tutta questa vita bucolica, che già alla fine del 1840 gli garantiva una rendita di 250mila lire l’anno, non impediva a Camillo di sperperare ingenti somme al tavolo verde: nel 1836 a Torino giocando a “goffo” (gioco di carte) perse al Caffè Florio 1.200 lire in un colpo solo. Non riusciva proprio a stare lontano dal gioco, come non resisteva quando gli si prospettava una buona speculazione in Borsa, cosa che gli attirò un bel po’ di critiche. Scrive ancora de Feo: «Era necessario tenersi in contatto con gli operatori economici di tutta l’europa dove l’industria agricola si andava appena sviluppando, allo scopo di calcolare il tempo migliore per vendere un prodotto. Alcune volte accadde che i depositi delle tenute di Leri immagazzinassero grano e riso che mancavano altrove e si dicesse in giro che i Cavour erano speculatori e accaparratori senza ritegno».
… E QUALCHE FLOP
Nella carriera di Camillo ci fu anche qualche buco nell’acqua. Innamorato delle ferrovie che aveva avuto modo di vedere in Inghilterra e che aveva intuito avrebbero favorito la libera circolazione (e l’unità) anche nel nostro Paese, entrò nel 1839 nell’affare del collegamento tra Chambéry e il lago di Bourget, 8 km di binari. Poi dei battelli avrebbero caricato passeggeri e merci e li avrebbero portati, risalendo i canali, fino a Lione. L’impresa fu un disastro: i capitali erano pochi e un ingegnere troppo giovane sbagliò il motore dei battelli. Ci rimise 100mila lire pure Cesare Balbo, entrato nell’affare solo per amore del conte. Anche questa volta arrivò in soccorso il sostegno economico del padre. Le sue intuizioni però andavano già molto lontano. •
LE DONNE DI CAVOUR
Se nell’industria agricola e nel mondo degli affari Cavour si rivelò una fucina di idee, sul fronte sentimentale manifestò fin da giovanissimo una certa inquietudine che lo portò a inanellare relazioni quasi soltanto con donne sposate. Cedettero al suo fascino – fisico tarchiato ma grande verve – in molte tra cui la parigina Melanie Waldor, già amante di Alexandre Dumas. Donne belle, colte, raffinate, ricambiate con una passione che, però, durava poco. Solo due gli fecero battere davvero il cuore: la prima e l’ultima. Anna Schiaffino Giustiniani (nella foto, 1807-1841), genovese, infelicemente sposata, fu la sua passione giovanile. Camillo la conobbe nel 1830 quando l’esercito lo trasferì nella città ligure. Bella, inquieta e con una forte vocazione intellettuale, “Nina”, come la chiamavano in famiglia, era una fervente repubblicana. Fu una relazione importante soprattutto per lei, che si suicidò dopo l’abbandono di Cavour. Tragedia. L’ultimo amore, il più scandaloso, durato fino alla morte improvvisa del conte, fu Bianca Ronzani, non proprio una nobildonna. Tedesca o polacca secondo alcuni, più probabilmente ungherese, ne rimane incerto anche il nome da ragazza, Sovierzy o Sevierzy. Ballerina di professione, arrivò a Torino con il marito, il mimo e coreografo triestino Domenico Ronzani, impresario del Teatro Regio nel 1856, che finì in bancarotta e scappò in Sud America. Bianca rimase, e divenne l’amante del conte, che le comprò una villetta sulle colline torinesi e le garantì una rendita, anche se la relazione rimase sempre clandestina. Alla morte di lui, Bianca andò a Parigi dove morì due anni dopo in miseria.
LEONE IN PARLAMENTO
“Molti degli individui che compongono il Parlamento non corrispondono degnamente all’aspettativa della Nazione”, scriveva Garibaldi nel 1861.
Da uomo schietto e di azione, il generale (a sinistra, in aula in un disegno dell’epoca) non amava i “camaleonti” della politica ed ebbe un rapporto controverso con quel mondo. Eletto più volte deputato, altrettante si dimise, in polemica o deluso per non riuscire a ricompensare l’esercito di “irregolari” che avevano combattuto al suo fianco per la patria. Lungimirante. Nell’aprile del 1861 fu scontro aperto con Cavour quando il primo ministro del neonato Regno d’italia reagì alle accuse di cattivo operato del governo nel Mezzogiorno e mala gestione del dualismo esercito-volontari. La seduta finì in rissa e venne sospesa. Sebbene disilluso, durante i periodi da deputato Garibaldi si batté anche per estendere il diritto di voto (riforma approvata dal Parlamento dopo la sua morte) e per fissare almeno temporaneamente un tetto (5mila lire annue, circa 20mila euro attuali) a tutte le pensioni, stipendi o assegni pagati dallo Stato. Proposta che non fu accolta.
L’ISOLA FATTORIA
“Attraverso il fumo del sigaro egli guardava i suoi nati (gli alberi, ndr) e rideva cogli occhi nel vedere i vividi rami dilungarsi dai tronchi nodosi, e la sua faccia prendeva un’espressione di dolore nell’osservare le piante già secche”, scriveva il patriota Candido Augusto Vecchi rivelando la passione per l’agricoltura del suo amico Garibaldi. Nel 1855 aveva acquistato metà dell’isoletta sarda di Caprera, aspra e difficilmente coltivabile, che con studio e dedizione trasformò in una fattoria rigogliosa, in cui passava giornate intere a dissodare terreno (a destra), costruire muretti, combattere contro vento e siccità. Tutti ospiti. Nel 1865 gli fu donato il resto dell’isola. E negli anni arricchì la sua proprietà: realizzò stalle, un mulino a vento, un pozzo, orti, frutteti, viti e olivi. Oltre a vino e olio, produceva miele e formaggio. Allevava polli, mucche, capre, gli amati cavalli, e agli asini dava i nomi dei suoi avversari (come Pio IX e Francesco Giuseppe, l’imperatore al comando dell’esercito austriaco in Italia durante la Seconda guerra d’indipendenza).
INQUIETO VIAGGIATORE
Prima di contribuire alla causa italiana, Garibaldi fu un abilissimo marinaio mercantile e combatté nelle guerre civili che sconvolsero Brasile e Uruguay negli anni Trenta dell’800. Le sue esperienze e le frequenti fughe come esule (si era rifugiato in Sud America per la prima volta nel 1835) lo portarono a girare il globo e a imparare cinque lingue (spagnolo e portoghese, ma anche francese, inglese e un po’ di tedesco). Le sue peregrinazioni continuarono tra una missione patriottica e l’altra. L’eroe esplorò Sud America, Stati Uniti, Europa Orientale (visse tre anni a Costantinopoli), Nord Africa. Nel 1852 arrivò fino in Cina, costeggiando Australia e Nuova Zelanda. Lettore. Durante i suoi viaggi scoprì la lettura: studiò a memoria i Sepolcri di Foscolo, lesse gli storici greci e romani, ma anche Victor Hugo, Voltaire e Rousseau. Egli stesso scrisse romanzi, poesie, epistolari e le note Memorie. La sua biblioteca a Caprera contava più di 4mila volumi.
INGEGNERE PER ROMA
Preoccupato per le piene del Tevere che colpivano regolarmente Roma, la capitale dell’italia che aveva contribuito a unire, convinse il Parlamento a finanziare un piano di difesa della città. E, benché in età avanzata e tormentato dall’artrite, nel 1875 stupì ancora una volta presentando in aula un progetto tutto suo, appoggiato dall’ingegnere Alfredo Baccarini. Esso consisteva nel regolare il flusso del fiume attraverso un canale di scarico con deviazione nell’aniene, l’altro corso d’acqua della città. Costi-benefici. Il generale propose anche di creare un porto commerciale verso Ostia e di risanare parte delle paludi dell’agro Pontino. Alla fine il Parlamento scelse un progetto meno oneroso, ovvero l’innalzamento delle mura di travertino che vediamo oggi lungo il Tevere.