Categoria: Archeologia

  • Giovedì 24 giugno 2021 ha aperto al pubblico “Alla ricerca della vita. Cosa raccontano i resti umani?”, un nuovo spazio espositivo permanente che amplia il percorso di visita del Museo Egizio e dedicato alla vita nell’antico Egitto attraverso lo studio dei resti umani.

    La sala “Alla ricerca della vita”, collocata al primo piano del Museo, esplora e approfondisce quindi il tema della vita nell’antico Egitto, il rapporto della cultura nilotica con la mummificazione e il concetto di aldilà, partendo dallo studio dei resti umani e dei corredi che in alcuni casi li accompagnano. Lo fa grazie ai sei individui, appositamente scelti di età differenti per mostrare le varie fasi dell’esistenza, da quella nemmeno sbocciata di un feto, fino all’avanzata maturità di una donna cinquantenne.

    A costituire il fulcro della nuova sala è una teca allestita per contenere 91 mummie che fanno parte della collezione del Museo: grazie a una speciale pellicola sei di queste mummie sono svelate al pubblico, a rappresentare le tappe fondamentali della vita. La speciale teca assolve alla doppia funzione di vetrina e deposito, ed è stata quindi progettata per garantire i massimi standard conservativi per resti umani ed organici estremamente fragili.

    Uno spazio particolare è dedicato inoltre alla mummificazione e ai suoi significati simbolici e religiosi, anche in una prospettiva diacronica: in particolare attraverso un video di approfondimento che i visitatori possono trovare in un apposito spazio allestito al piano superiore e raggiungibile direttamente dalla sala.

    La sala non si confronta solo con lo studio dei resti umani, ma anche con il tema della loro esposizione e le implicazioni etiche che la caratterizzano. Questo tema, di grande complessità, vede il Museo impegnato in un confronto costante, da una parte con il proprio pubblico, dall’altra con la comunità scientifica nazionale e internazionale. Fra settembre e ottobre del 2019 inoltre il Museo Egizio ha deciso di commissionare all’agenzia Quorum un sondaggio per investigare l’opinione dei propri pubblici riguardo al tema dell’esposizione dei resti umani in un contesto museale.

    Per maggiori informazioni su questo tema e per partecipare al sondaggio clicca QUI

    Per espandere l’esperienza di visita anche oltre la sala, è possibile rivedere i contenuti video presenti negli spazi de “Alla ricerca della Vita”:

    #1 – Gravidanza e nascita

    #2 – Crescere un bambino

    #3 – Avere 13 anni

    #4 – La cantante di Amon

    #5 – Il tutore dei figli del Faraone

    #6 – La terza età

    Cielo, terra e aldilà

    La sala è stata realizzata con il sostegno e il contributo della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino.

    Alla ricerca della Vita
    Un nuovo spazio permanente dedicato alla vita nell’antico Egitto attraverso lo studio dei resti umani
  • Fonte AGI –

    Un libro raccoglie le iscrizioni preziose per documentare l’evoluzione della lingua latina popolare, dai graffiti sui muri ai piatti, al collare di una schiava.

    A coloro che alla lettura del titolo – “Oltre Pompei: graffiti e altre iscrizioni oscene dall’Impero Romano d’Occidente” – avranno sollevato il sopracciglio, o atteggiato il labbro ad un sogghigno, o accennato una risatina imbarazzata: la vostra espressione si bloccherà non appena avrete aperto la prima pagina di questo libro, che è un testo di altissima erudizione e raffinata filologia per lo studio dell’evoluzione della lingua latina volgare.

    Ma questo dato di fatto spiazzante, cioè un lessico osceno analizzato scientificamente da glottologi, non impedisce una lettura decisamente divertente del testo. E i disegni graffiti, la cui qualità artistica non è il caso di commentare, nella loro caratterizzazione rozzamente erotica danno l’impressione di un’attualità sconcertante, perché, come si legge nell’introduzione, “hanno la varietà e i toni stessi della vita, crudi talvolta, ma efficacemente reali nel connotare situazioni, sentimenti e aneliti di uomini che non hanno fatto la Storia, ma sono senz’altro essi stessi momenti di quella storia che investiva la società dell’epoca”.

    Le scritte (sovente insulti), graffite con strumenti improvvisati, non avevano – appunto – la finalità di passare alla Storia, e la loro grammatica e ortografia sono “basse”: ma proprio per questo sono preziose per documentare l’evoluzione della lingua latina popolare, tutt’altro che letteraria ma comunque parlata da chiunque fosse abbastanza istruito da saper scrivere un graffito su un muro, su un piatto, sul collare di una schiava.

    Questi documenti raccolti in territori lontanissimi dell’Impero, dalla Germania all’Africa, in un arco di tempo di alcuni secoli, si aggiungono a quelli già restituiti dagli scavi di Pompei (i quali però si fermano, inevitabilmente, all’anno dell’eruzione: 79 d.C.). L’unità culturale dell’Impero è documentata dall’uniformità di questa lingua bassa e copre anche tutti i termini anatomici, scatologici, sessuali, che i curatori hanno cura di tradurre con scrupolosa precisione in italiano, in tutta la loro crudezza. La traduzione, scrive nella premessa

    Stefano Rocchi (che insegna filologia classica all’Università di Pavia) “è schietta e scevra di inibizioni, come si conviene alle tematiche trattate, che faranno forse sorridere e pensare come in fondo l’uomo poco o nulla cambi. Il pensiero correrà senz’altro alle scritte sulle colonne di portici e nei bagni pubblici delle nostre città oppure al fenomeno degli haters più o meno anonimi attivi sui social”.

    Non mancano, fra le incisioni rinvenute nei luoghi più incongrui, testi a volte allusivi, o anche colti, o enigmistici, o parodistici di poesia amorosa con citazioni erudite che spiazzano ulteriormente il lettore moderno. Il volume, curato da Stefano Rocchi e Roberta Marchionni, è pubblicato da Deinotera Editrice.

  • Si tratta di due uomini, un signore e il suo schiavo.

    È un improvviso tuffo nel passato, come solo Pompei riesce a fare.
    La notizia della scoperta di due nuove vittime dell’eruzione, ci riporta a quell’antica tragedia con sempre più dettagli.
    In attesa di pubblicazioni e studi approfonditi, è possibile inquadrare questo ritrovamento nella sequenza di fatti avvenuti nella tragedia di Pompei e capire gli ultimi istanti di vita dei due? Probabilmente sì, la scena infatti, fissata nel tempo, avviene in un momento preciso dell’eruzione.
    Proviamo a tornare a quelle terribili ore.
    I due uomini, un ragazzo e un quarantenne (si è ipotizzato un padrone con il suo schiavo), sono riusciti a sopravvivere a gran parte dell’eruzione, scoppiata improvvisamente all’ora di pranzo del giorno precedente, il 24 ottobre. Tutta l’area di Pompei è stata gradualmente sepolta da una grandine di pomici e lapilli. I tetti continuano a crollare per il loro peso, uccidendo molte persone, altre invece sono ormai intrappolate in casa. A Pompei, o fuggivi subito o era troppo tardi, perché già dopo un’ora e mezza le vie e le campagne erano completamente coperte da uno strato di lapilli che impediva di procedere e persino di vedere i tracciati delle strade. Una fuga comunque difficile anche per il pulviscolo vulcanico in sospensione che irritava la gola o i blocchi di pietra vulcanica che cadevano dal cielo come proiettili. I due, come tanti altri, sono rimasti in casa, ad aspettare. Nel loro caso si trattava di una splendida villa appena fuori le mura di Pompei, con dei cavalli già sellati: segno che si aspettava una quiete per scappare?  Chissà.
    Torniamo a quei momenti. I due sono impauriti e molto stanchi. Hanno superato una notte d’inferno con forti scosse di terremoto, boati del vulcano, urla di chi nei dintorni cercava un congiunto o anche solo la salvezza.
    L’assordante crepitio della pioggia di pomici sulle tegole si è fermato intorno all’una di notte. La città ormai è già per metà sepolta e sembra un transatlantico che affonda (ecco perché a Pompei si è conservato bene il pianterreno e a volte il primo piano della città).
    Cosa fare? Probabilmente la cosa migliore è aspettare la luce: con l’alba si proverà a mettersi in cammino. Quasi certamente il sole che sorge è appena visibile attraverso la spessa coltre di ceneri sospese nell’aria. Fa freddo. Il fatto che uno dei due uomini sia stato ritrovato con un pesante mantello di lana è una ulteriore conferma (corroborata da una miriade di altri indizi, dai bracieri nelle case, ai datteri e i fichi secchi, al vino già sigillato nei dolia, le “botti” in terracotta) che l’eruzione è avvenuta in autunno e non ad agosto come si è sempre erroneamente ipotizzato. Non sappiamo se i due abbiano in mente di andare via o se debbano rimanere di guardia alla villa. È comunque troppo tardi per tutti: la colonna eruttiva che sale per decine di chilometri in cielo, si è “stancata”, ha perso di energia e inizia a sedersi su se stessa più volte, trasformandosi in una serie di valanghe ustionanti verso valle. Già durante la notte lo ha fatto, e uno di questi flussi piroclastici, come li chiamano i vulcanologi, ha investito a 100 chilometri all’ora e a 600 gradi la città di Ercolano, uccidendo chiunque abbia incontrato. A Pompei, forse perché più distante, i flussi che arrivano hanno un po’ meno forza (i vestiti delle vittime non vengono strappati) e meno calore (i crani non esplodono), ma sono ugualmente mortali. Forse anche i due uomini hanno visto giungere verso di loro quella apocalittica nuvola grigia ribollente, alta quanto una collina. Hanno cercato riparo nel passaggio coperto della villa (criptoportico) nei pressi del quale li hanno rinvenuti? È possibile. È una scelta istintiva.
    Gli archeologi e gli antropologi che li studiano, ai quali va tutto il nostro plauso, ci diranno in dettaglio cosa hanno scoperto. Se i due sono morti come tante altre vittime di Pompei, allora probabilmente sono stati avvolti da una violenta nuvola densa di ceneri e gas, che ti acceca e entra nelle orecchie, nel naso, in bocca… La morte è atroce, le tue vie respiratorie sono intasate da ceneri impalpabili come il talco, mentre alcuni gas ti aggrediscono le mucose. Come l’anidride solforosa che si trasforma in acido solforico…
    Uno dei due uomini ha le gambe divaricate e un po’ flesse, con le braccia piegate come quelle di un pugile, una posa tipica delle vittime di alte temperature.
    La loro incredibile conservazione è dovuta al fatto che sono stati sepolti al momento della morte (o sepolti vivi mentre morivano) dalle ceneri finissime dei flussi piroclastici e sigillati per sempre, quasi si trattasse di colata di cemento che ne ha fatto l’impronta perfetta.
    Con i mesi e gli anni i tessuti molli sono scomparsi, lasciando solo un vuoto nel terreno con le ossa.
    Ho parlato con alcuni archeologi che in passato hanno scoperto altri corpi. Mi hanno descritto l’emozione di vedere aprirsi un piccolo pertugio nei sedimenti quando scavano, e capire che, forse, è proprio ciò che rimane di una persona. Bisogna agire rapidamente. Si cola del gesso che “riempie” l’impronta vuota della vittima come se si riempisse una bottiglia vuota. Si aspettano poi alcune ore che tutto asciughi e con delicatezza si rimuovono tutti i sedimenti attorno.
    Ciò che vi appare è il calco del corpo della persona, così perfetto che si vedono le pieghe dei vestiti o i capelli… Sembra una statua. Vengono spesso definiti “corpi” e molti turisti fanno commenti irriverenti e selfie. Ma ricordo sempre che si tratta di persone, nel momento in cui la vita li abbandona. Ci vuole rispetto.
    La nuova scoperta sottolinea la ricchezza del nostro patrimonio, non solo archeologico, ma culturale in generale, che deve essere tutelato e valorizzato perché tutti, oggi come in futuro, possano goderne.
    In particolare, ciò vale per Pompei che tanto ha ancora da insegnarci.
    E ogni volta riesce a sorprenderci.
    Contenuti Pagina FB di Alberto Angela
    Foto Luigi Spina Pagina FB Parco Archeologico di Pompei
  • MORRONE DEL SANNIO, CAMPOBASSO

     

    Nell’area archeologica di Casalpiano sono stati scoperti i resti di una villa romana del periodo imperiale, residenza di Rectina, amica di Plinio il Vecchio e da questi salvata nel 79 d.c. dall’eruzione del Vesuvio a Pompei.

    Già prima del VI sec. d.c. però, l’area venne trasformata in una necropoli e ad oggi sono state scoperte più di 50 tombe di donne, uomini e bambini.

    Rispetto al periodo altomedievale non si hanno notizie certe, ma intorno all’anno mille già dovevano essere state edificate due chiese: Santa Maria e Santa Apollinare.

    Quest’ultima oggi non esiste più ed è ancora incerta la sua collocazione, mentre l’odierna chiesa di Santa Maria, con una tipica struttura in stile romanico-molisano, diffuso tra il XIII e XIV secolo, è il frutto di successive trasformazioni, nel ‘500 prima e nel ‘700 poi, che ne hanno modificato l’orientamento e le decorazioni.

    Al lato dell’attuale chiesa si trovano i resti monumentali di un altro edificio religioso di cui però è ancora incerta la datazione, considerate le notevoli dimensioni e l’altezza delle strutture, probabilmente risalente al periodo goticizzante.

     

     

  • [xyz-ihs snippet=”Marzo-2020″

    L’Europa ha numerose collezioni papirologiche e raccolte di papiri, una ricchezza documentaria che testimonia l’interesse europeo per l’Orientalismo, emerso nel XVIII secolo e presente fino al XIX secolo, che ha permeato la sua cultura materiale. Lo sviluppo di una tale piattaforma online, di libero accesso e ad alta risoluzione, è di grande valore per i musei, soprattutto in considerazione del suo potenziale di essere utilizzato per la creazione di un museo digitale europeo che riunirebbe un patrimonio disperso, una raccolta virtuale omogenea che sarebbe impossibile realizzare a livello materiale. L’applicazione di strumenti dell’era digitale contribuisce allo sviluppo della conoscenza, alla conservazione della cultura materiale e alla sua accessibilità, sia per gli studiosi che per il pubblico generale, promuovendone la diffusione”.

    Con queste motivazioni la giuria di Europa Nostra ha assegnato alla Turin Papyrus Online Platform (TPOP) il premio Europa Nostra 2020 nella categoria Ricerca.

    Dal 2017 il Museo Egizio ha avviato la digitalizzazione della propria collezione papiri. A settembre 2019 è stata lanciata la Turin Papyrus Online Platform (TPOP), database che, utilizzando strumenti informatici e digitali, rende la collezione papirologica torinese accessibile oltre i confini geografici e disciplinari. La conservazione ‘virtuale’ dei papiri, mediante la loro digitalizzazione e messa in rete all’interno di un sistema open data, contribuisce alla preservazione a lungo termine di tale materiale, che diventa disponibile a chiunque, ovunque e in qualsiasi momento.

    Il Museo Egizio è stato fondato nel 1824 ed è considerato la principale istituzione nel campo delle antichità egizie al di fuori dell’Egitto. La collezione papiri del Museo è composta da quasi 700 manoscritti interi o riassemblati e da oltre 17.000 frammenti, che documentano oltre 3000 anni di cultura materiale scritta in sette scritture e otto lingue provenienti da diverse località. Il progetto TPOP include una delle raccolte più grandi e di maggior rilievo storico per quanto riguarda i papiri ieratici di periodo Ramesside di Deir el-Medina.

    I documenti digitalizzati sono in alta risoluzione e collegati a metadati aperti, che registrano le caratteristiche fisiche dei papiri, il tipo di scrittura e i disegni che riportano. È disponibile in open access ed è una piattaforma multiutente, il che significa che egittologi, storici e studiosi possono lavorare in modo collaborativo sul materiale da più posizioni e fornire dati liberamente.

    Il Museo Egizio è così tra i primi musei ad abbandonare la pratica di concedere l’autorizzazione a pubblicare singoli manoscritti a un solo studioso, una politica che di solito porta a un numero molto limitato di pubblicazioni in proporzione alla quantità di papiri disponibili. Rendendo il TPOP aperto e accessibile, il Museo intende quindi promuovere la ricerca ai massimi livelli, con progetti di ricerca collaborativa condotti dai propri curatori, da singoli ricercatori e team di studiosi di lunga data o di recente formazione.

    In futuro il portale potrà includere tutta la collezione papirologica del Museo Egizio, e potrebbe costituire il punto di partenza per la costituzione di una piattaforma online europea che colleghi le raccolte egizie di materiale scritto conservate in numerose istituzioni culturali europee.

    Questo porterebbe a unire database e frammenti in una modalità possibile solo digitalmente.

  • Se le mura di casa nelle quali siamo costretti a causa del coronavirus diventano insopportabili, viaggiamo con la mente ma anche con il computer: Petra, il gioiello della Giordania, apre le sue porte online con un percorso multimediale disponibile su Google Maps.

    Petra è un favoloso sito archeologico che si trova a circa 259 km a sud di Amman, nel deserto sudoccidentale della Giordania, risalente al 300 a.C., dove si trovano i resti di quella che fu la capitale del Regno nabateo. Il sito, scoperto nel XIX secolo, è patrimonio mondiale dell’UNESCO.

    L’ingresso al pubblico, in questo periodo di crisi sanitaria mondiale, è di fatto impossibile e così la Giordania si unisce al movimento #iorestoacasa: Petra segue dunque le molte iniziative  che consentono la cultura (e lo svago) anche dal proprio domicilio gratuitamente.

    Oltre 2.000 anni fa i Nabatei fondarono Petra, la città di pietra – si legge sul sito che ci apre le porte virtuali di questo spettacolo – Viaggia con noi alla scoperta di ciò che si cela oltre l’inconfondibile ingresso della città e scopri una delle più incredibili meraviglie del mondo, dimenticata dal tempo”.

    Tra l’altro, come si legge nell’introduzione del tour, molte persone credono che Petra inizi e finisca a El Tesoro, ma in realtà il sito archeologico della città ha molto altro da offrire. E con questa iniziativa tutta virtuale sì e gratuita.

    Il sito invita a usare delle cuffie per immergersi completamente nella visita con esperienza multimediale, guardando le immagini e ascoltando la regina che narra la storia di questa antichissima città.

    Andiamo!

    Per visitare Petra clicca qui

    Fonti di riferimento: Google Maps

  • In attesa di tornare presto ad ammirare i suoi preziosi tesori, il Museo Egizio di Torino propone un virtual tour per entrare virtualmente nel museo che è attualmente chiuso. Come tutti gli altri musei di Torino e d’Italia, anche il Museo Egizio rimarrà infatti chiuso fino al 3 aprile come imposto dal decreto del Governo sull’emergenza Coronavirus.

    In attesa che l’emergenza passi, il Museo Egizio di Torino propone a tutti i torinesi (e non, questo il bello del web che rende tutto fruibile ovunque) una visita virtuale della mostra “Archeologia invisibile”. Lo scopo di questo nuovo allestimento, in programma fino al 7 giugno 2020, è quello di illustrare principi, strumenti, esempi e risultati della meticolosa opera di ricomposizione di informazioni, dati e nozioni resa oggi possibile dall’applicazione delle scienze alla propria disciplina e, in particolare, allo studio dei reperti.

    L’esposizione è un viaggio reale e virtuale tra pezzi unici e mummie alla scoperta della storia che si nasconde dietro gli oggetti antichi: un connubio tra cultura digitale e materiale e un nuovo modo di fruire gli spazi museali.

    La mostra offre dunque al visitatore la possibilità di guardare oltre l’oggetto e interrogarlo per scoprirne la storia, gli aneddoti e i segreti. La mostra si articola in tre sezioni: la fase di scavo, le analisi diagnostiche e il restauro e conservazione.

    Attualmente è disponibile anche un virtual tour della mostra al Museo Egizio di Torino grazie a uno strumento innovativo e immersivo, sviluppato da alcuni studenti del corso di laurea in Ingegneria del cinema e dei mezzi di comunicazione del Politecnico di Torino in collaborazione con lo studio creativo Robin Studio, che, utilizzando fotocamere a 360°, hanno realizzato una riproduzione 3D dell’esposizione.

    Grazie al virtual tour è così possibile esplorare le sale espositive e le vetrine ospitate, “navigandone” tutti gli elementi, dai video ai singoli reperti, da qualunque dispositivo: una novità disposizione di insegnati, studenti, e ovviamente di tutti i visitatori.

     

    Buona Visita!  cliccando qui.

  • Sei Sculture dell’artista alto-atesino ridanno vita ad un’antica necropoli.

    Venuta alla luce durante i lavori per la ricostruzione della Nuvola, sede della storica Azienda torinese, accoglie l’arte contemporanea di Art Site Fest.

    L’Area Archeologica della Nuvola Lavazza di Torino apre per la prima volta all’arte contemporanea nell’ambito della quinta edizione di Art Site Fest, un percorso nei linguaggi della contemporaneità in luoghi insoliti, curato da Domenico Maria Papa.

    La mostra.

    L’area archeologica  ospita un progetto dello scultore alto-atesino Aron Demetz. Le opere selezionati per questa mostra, sono una rielaborazione della tradizionale lavorazione del legno tipica della Val Gardena, terra dell’artista. “Ho scelto dal suo studio di Ortisei le opere più rappresentative della sua ricerca”, ha spiegato il curatore Papa, “e nello stesso tempo, quelle in grado di instaurare un dialogo con il particolare spazio circostante”.  Luogo suggestivo e che non ti aspetteresti.

    Francesca Lavazza e il luogo.

    Quando abbiamo iniziato i lavori di ripristino dell’area non ci aspettavamo di trovare questo tesoro”, ha commentato Francesca Lavazza, membro del board del Gruppo. “Avere i nostri uffici che poggiano le fondamenta su questa basilica è molto importante per noi, come anche il fatto che ora si riempia di opere di arte contemporanea composte da materiali naturali e incentrate sull’uomo: due elementi che rientrano negli obiettivi del progetto Nuvola”.

    Sono stati individuati i resti di un’antica Basilica Paleocristiana collocabile tra la seconda metà del IV secolo e il V secolo d.C., sviluppatasi sopra le strutture di una precedente necropoli. La chiesa, a navata unica, ed è caratterizzata da una serie di tombe sia all’interno che all’esterno del suo perimetro.


    Aron Demetz

    … “Anche se il mio è un ritorno alla scultura classica, non è tanto importante la figura, quanto la ricerca sulla trasformazione dei materiali e il legno carbonizzato mi permette di trasmettere questa idea di metamorfosi”.

    Si è guadagnato notorietà internazionale grazie a un personale linguaggio scultoreo che coniuga la figurazione con una sensibilità assolutamente contemporanea.

    Il legno soprattutto, ma anche il bronzo e più di recente l’alluminio e l’argento, sono i materiali che restituiscono forma a corpi, colti spesso in una condizione di sospensione. Nel lavoro di Demetz è presenta una profonda riflessione sul rapporto dell’uomo con la natura, dalla quale origina la consapevolezza di una mancata unione.

    In alcuni casi Demetz ricopre la superficie delle strutture con resina naturale che l’artista stesso raccoglie dagli alberi delle foreste della Val Gardena.

    La resina, materiale in costante mutamento ha caratteristiche fortemente evocative e contribuisce di esprimere una nozione arcaica e metafisica. Utilizzate malte per conservare tessuti nei metodi di mummificazione, rinvia anche un’idea di durata di ricomprendere composizione.

    Utilizzata nei secoli anche come luogo di culto. Demenza colloca alcune delle sue opere in interno dell’area archeologica, tra le tombe, disegnando un percorso che assume una valenza quasi religiosa.

    Nato nel 1972 Vipiteno Bolzano da una famiglia ladina di scultori che, già da secoli, lavoravano come intagliatori in Val Gardena. Tra il 1997 1998 studiò cultura nella classe di Christian  Hofner presso l’Accademia delle belle arti di Norimberga. Ha esposto in musei e gallerie di tutto il mondo. Del 2018 è l’importante personale presso il Museo Nazionale Archeologico di Napoli.

    Dl 2010 è titolare della cattedra di Belle Arti di Carrara. Vive e lavora  a Selva di Val Gardena.

    L’ingresso alla mostra, è limitato a 15 persone per volta tramite visite guidate, esclusivamente su prenotazione.

    L’Area Archeologica sarà chiusa dal 4 novembre al 7 dicembre compresi.

    Per maggiori informazioni clicca QUI

     

  • Castello di Fénis (Ao), con il suo trionfo di torri e la sua bellissima cinta muraria merlata, è uno dei più famosi castelli della Valle d’Aosta. Situato nell’omonimo comune di Fénis, il castello si trova in una posizione inusuale per una fortezza edificata a scopo bellico e di protezione. La costruzione non si trova infatti sulla sommità di un promontorio, ma su un lieve poggio privo di difese naturali. Quasi sicuramente la funzione primaria del castello non era quella difensiva, ma piuttosto di prestigiosa e fastosa sede amministrativa della famiglia Challant-Fénis, nobile casata valdostana che dotò la dimora di un imponente apparato difensivo, ma anche di eleganti decorazioni pittoriche, simboli di potenza e di prestigio.

    Le prime testimonianze dell’esistenza del castello si trovano in un documento del 1242, nel quale viene indicato un castrum Fenitii quale proprietà del visconte di Aosta Gotofredo di Challant e dei suoi fratelli. Molto probabilmente all’epoca il castello comprendeva solamente la torre colombaia sul lato sud e la torre quadrata, un corpo abitativo centrale e un’unica cinta muraria. L’architettura del castello di Fénis ha difatti subito nel corso del tempo numerose modifiche: le torri e le mura merlate furono aggiunte al torrione preesistente verso la metà del 1300 da Aimone di Challant.

    Oggi il Castello di Fénis è una delle dimore nobiliari medievali meglio conservate d’Italia, ma non è stato sempre così. La grandiosa dimora fu di proprietà dei signori di Challant del ramo di Fénis fino al 1716, quando fu ceduta poi al conte Baldassarre Castellar di Saluzzo Paesana. Le vicende storiche di questa famiglia portarono a un lento e graduale degrado del grande castello che fu poi abbandonato e trasformato in un’abitazione rurale: le sale del pianterreno furono adibite a stalle, mentre il primo piano fu trasformato in un fienile.

    Il recupero di questo importante edificio storico è da attribuire a Alfredo d’Andrade, architetto, archeologo e pittore portoghese naturalizzato italiano, che acquistò il castello di Fénis nel 1895 e, dopo averne restaurato le parti più rovinate, ne fece dono allo Stato italiano. Oggi l’edificio è di proprietà della Regione autonoma della Valle d’Aosta.

    Il castello è ben conservato e gli interni sono ricchi di affreschi. La dimora ha pianta pentagonale e la costruzione principale è arricchita da cinque torri, tre a pianta rotonda e due a pianta quadrata. Sulla cima delle torri è possibile ammirare alcune maschere aventi funzione apotropaica, ovvero oggetti atti a proteggere il castello dagli influssi maligni. 

    Si accede alla struttura attraverso una torre quadrata che aveva una saracinesca utilizzata per sbarrare l’androne in caso di pericolo. Al pianterreno potrete ammirare la sala d’armi, il refettorio per soldati e servitori, la dispensa e la cucina dotata di un gigantesco camino.

    Al primo piano invece si trova una cappella con l’annessa sala di rappresentanza, la camera domini, la cucina nobile, la sala da pranzo dei signori e la sala di giustizia.

    Il percorso di visita del Castello di Fénis si conclude nel cortile interno dove si trova lo scalone semicircolare sovrastato dal famoso affresco raffigurante San Giorgio che uccide il drago. Alzando gli occhi potrete poi ammirare, al piano superiore, le balconate in legno decorate da un gruppo di affreschi rappresentanti dei saggi e dei profeti con proverbi e sentenze morali scritti in antico francese. Infine, la parete orientale è decorata dai dipinti dell’Annunciazione e di San Cristoforo, attribuiti a un pittore vicino alla scuola di Jaquerio e presumibilmente realizzati tra il 1425 e il 1430.

    Il Castello di Fénis è una delle più importanti attrazioni della Valle d’Aosta e ogni anno viene visitato da oltre 80.000 persone. Una piccola curiosità legata a questo castello: nel 1985 proprio qui sono stati girati gli esterni del film “Fracchia contro Dracula” di Neri Parenti con Paolo Villaggio.

    Se state pensando a una gita fuori porta da Torino da fare in giornata, non perdete questo maniero che si trova a poco più di un’ora d’auto dal capoluogo piemontese.

  • Amuleti, gemme ed elementi decorativi in faïence, bronzo, osso e ambra riemergono dallo scavo della Regio V. Erano monili e piccoli oggetti legati al mondo femminile, utilizzati per ornamento personale o per proteggersi dalla cattiva sorte, ritrovati in uno degli ambienti della casa del Giardino.
    Custoditi in una cassa in legno, e da poco restaurati e riportati al loro splendore dalle restauratrici del Laboratorio di Restauro del Parco Archeologico di Pompei, si trattava di una parte dei preziosi di famiglia, che forse gli abitanti della casa non riuscirono a portare via prima di tentare la fuga.
    La traccia della cassa in legno che conteneva i reperti, le cui cerniere bronzee si sono ben conservate all’interno del materiale vulcanico, a differenza della parte lignea decompostasi, è stata individuata accanto all’impronta di un’altra cassa o mobile nell’angolo di uno degli ambienti di servizio, probabilmente usato come deposito.
    Sul fondo dell’impronta sono stati rinvenuti i numerosi oggetti preziosi, tra cui due specchi, diversi vaghi di collana, elementi decorativi in faïence, bronzo, osso e ambra, un unguentario vitreo, amuleti fallici, due frammenti di una spiga di circa 8 cm e una figura umana, entrambi in ambra, probabilmente dal valore apotropaico, e varie gemme (tra le quali una ametista con figura femminile e una corniola con figura di artigiano). Diversi pezzi si contraddistinguono per la qualità pregiata dei materiali, oltre che per la fattura. Tra le paste vitree, straordinarie sono quelle con incise, su una la testa di Dioniso, sull’altra un satiro danzante.
    Alcuni oggetti preziosi sono stati rinvenuti anche in una altra stanza della casa, presso l’atrio, dove sono stati documentati i resti scheletrici di donne e bambini, sconvolti da scavi clandestini di età moderna (XVII – XVIII secolo), probabilmente finalizzati proprio al recupero dei preziosi che le vittime portavano con sé. Solo un anello in ferro, ancora al dito della vittima, e un amuleto di faïence sono casualmente sfuggiti a questo saccheggio.
    Considerate le straordinarie condizioni di conservazione e la particolare qualità dei manufatti è stato possibile donar loro una nuova vita mediante un intervento di semplice pulitura e consolidamento con materiali reversibili.
    Presto i monili saranno esposti, con altri gioielli pompeiani, presso la Palestra Grande, in un’esposizione che si propone come seguito di “Vanity”, la mostra da poco conclusasi, e dedicata finora al confronto di stile e manifattura di gioielli dalle Cicladi e da Pompei, oltre che da altri siti campani.
    “Si tratta di oggetti della vita quotidiana del mondo femminile e sono straordinari perché raccontano microstorie, biografie degli abitanti della città che tentarono di sfuggire all’eruzione. – dichiara il Direttore Generale Massimo Osanna – Nella stessa casa, abbiamo scoperto una stanza con dieci vittime, tra cui donne e bambini, di cui stiamo cercando di stabilire le relazioni di parentela e ricomporre la biografia del gruppo familiare, attraverso le analisi sul DNA. E chissà che la cassetta di preziosi non appartenesse a una di queste vittime. Particolarmente interessante è l’iconografia ricorrente degli oggetti e amuleti, che invocano la fortuna, la fertilità e la protezione contro la mala sorte. E dunque i numerosi pendenti a forma di piccoli falli, o la spiga, il pugno chiuso, il teschio, la figura di Arpocrate, gli scarabei. Simboli e iconografie che sono ora in corso di studio per comprenderne significato e funzione.Se ti va puoi leggere

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