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Da oggi e per tutto il 2020 una rosa rossa sulla tomba di Raffaello al Pantheon accompagnerà le celebrazioni per i cinquecento anni dalla sua morte, avvenuta a Roma il 6 aprile 1520 ad appena 37 anni.Le spoglie del celebre artista, detto l’Urbinate, sono conservate al Pantheon per sua stessa volontà.Nel 1520 il corpo venne sepolto nel monumento romano e sistemato nell’edicola della Madonna del Sasso, opera commissionata dallo stesso Raffaello ed eseguita da Lorenzo Lotti detto Lorenzetto.Sulla lapide sono impresse le parole dedicategli da Pietro Bembo che, esaltandone la forza creatrice, scrive:ILLE HIC EST RAPHAEL TIMUIT QUO SOSPITE VINCI RERUM MAGNA PARENS ET MORIENTE MORI“Qui giace Raffaello dal quale, mentre era in vita, la Natura temette di essere vinta e, quando morì, temette di morire anch’essa”.
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Un mosaico di ventidue voci che appartengono a ventidue grandi della musica d’autore italiana – i cui volti e nomi restano un mistero – ognuno dei quali recita un verso de L‘Infinito di Giacomo Leopardi. Un capolavoro, targato Rai e Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, per celebrare i duecento anni della poesia composta dal poeta recanatese nel 1819. Un video sorprendente, che sarà in onda dal 19 al 31 dicembre su tutti i canali Rai e su RaiPlay, un viaggio sonoro e visivo in cui le voci degli artisti, che hanno offerto gratuitamente e con entusiasmo il proprio contributo, si uniscono all’animazione del manoscritto di Leopardi.
Firmato da Rai Cultura (che sul web ospita anche una pagina dedicata, www.raicultura.it/200infinito) e da Direzione Creativa Rai, il nuovo progetto editoriale de “L’Infinito” si propone di chiudere l’anno nel segno della bellezza e della valorizzazione di una delle espressioni più alte della nostra letteratura, che mantiene intatta anche oggi tutta la propria forza e alla quale Rai e MiBACT rendono omaggio.
Le celebrazioni del bicentenario si sono aperte con le voci degli studenti, sull’“ermo colle” di Recanati, e poi in tutta Italia, nelle scuole e nelle piazze, nelle molteplici versioni dialettali divenute virali sul web: una grande lettura collettiva de “L’Infinito” ha accompagnato la ricorrenza dei duecento anni dalla composizione di quell’idillio e che i ventidue cantautori italiani, ora lettori d’eccezione, affidano al grande pubblico della Tv.“Sono grato ai grandi della canzone d’autore italiana – dichiara il Ministro per i beni e per le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini – che hanno accettato il mio invito a leggere L’Infinito di Leopardi per festeggiare il bicentenario di uno dei componimenti più celebri e popolari della nostra produzione poetica. Le 22 voci, donate e anonime, fanno venire i brividi e sono un’unica dichiarazione d’amore per la poesia”.
L’INFINITO
La stesura autografa degli Idilli utilizzata per realizzare il video RAI è conservata dal Comune di Visso in provincia di Macerata, dove attualmente è tornata dopo la mostra a Recanati ed è custodita in cassetta di sicurezza in attesa della ricostruzione del museo fortemente danneggiato dal sisma del Centro Italia.
Composto tra la primavera e l’autunno del 1819, la versione de L’Infinito utilizzata per il video è quella che approdò alle stampe solo sul finire del 1825, quando apparve insieme con la Sera sulla rivista “Il Nuovo Raccoglitore” nella rubrica “Poesia”.
Esiste anche una prima stesura de L’Infinito di Leopardi, conservata alla Biblioteca Nazionale di Napoli Vittorio Emanuele III dove è esposta in occasione del bicentenario. Fa parte di un fascicoletto su cinque bifogli spessi, rigati e dai margini irregolari.
I quindici endecasillabi sciolti introdotti dal titolo “L’Infinito” sono scritti ordinatamente al centro della pagina con tratto nitido e sottile, in un inchiostro marrone dal fondo molto scuro. Poche le correzioni, concentrate ai versi 3-4 e 13-14 e compiute con un inchiostro più denso e un pennino dalla punta più spessa.
BICENTENARIO INFINITO: FINO A DICEMBRE ESPOSTO A NAPOLI IL PRIMO AUTOGRAFO
Il primo autografo de L’Infinito è esposto nella sezione Manoscritti della Biblioteca Nazionale di Napoli per tutto l’anno del bicentenario.
La Biblioteca Nazionale di Napoli, custode dell’eredità leopardiana, insieme alla prima stesura autografa de L’Infinito conserva nella sua quasi totalità il corpus delle opere letterarie, filosofiche e saggistiche leopardiane, lasciato da Giacomo all’amico Antonio Ranieri e pervenute nel 1907, dopo diverse dispute giudiziarie, alla biblioteca napoletana.Forte di questo patrimonio, la Nazionale di Napoli da tempo valorizza l’opera del poeta attraverso una costante attività di ricerca e studio del patrimonio leopardiano, che comprende anche la digitalizzazione del vasto corpo di autografi leopardiani conservati a Napoli.
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Fu la prima first lady del Regno d’italia, lanciò nuove mode come una influencer e si guadagnò un posto d’onore nell’immaginario popolare, tanto che il suo nome è ancora oggi legato al piatto italiano più famoso al mondo: la pizza margherita.
Regina d’Italia al fianco di Umberto I dal 1878 al 1900, Margherita di Savoia divenne una delle icone più rappresentative e amate della monarchia sabauda.
Quali sono le ragioni di tanto successo? Un’ineguagliabile “professionalità” nel gestire la propria immagine e un talento naturale nelle pubbliche relazioni.
JOINT VENTURE DINASTICA.
Nata a Torino nel 1851, la futura regina era figlia di Elisabetta di Sassonia e del duca di Genova Ferdinando di Savoia, fratello dell’allora sovrano di Sardegna Vittorio Emanuele II. Quando aveva 10 anni, l’illustre zio divenne il primo re d’italia, e presto si pose il problema di trovare una sposa adatta al giovane erede al trono, Umberto. «Dopo vari tentennamenti, la scelta cadde sulla principessa Matilde d’asburgo-teschen, ma a pochi mesi dalla cerimonia la promessa sposa morì in un incendio», racconta Luciano Regolo, autore del libro Margherita di Savoia, i segreti di una regina (Edizioni Ares). «Fu allora che entrò in scena Margherita, cugina di Umberto, ritenuta la moglie “giusta” perché già educata secondo le consuetudini di casa Savoia». Orfana di padre, la giovane aveva all’epoca 16 anni (7 in meno del consorte) e il physique du rôle perfetto: raffinata, intelligente e di bell’aspetto, con lunghi capelli biondi e intensi occhi azzurri. Con Umberto si sposarono a Torino nel 1868, e dopo le nozze intrapresero un tour della Penisola per “sponsorizzare” la neonata monarchia nazionale, guidata da Vittorio Emanuele II senza una regina al fianco (sua moglie Maria Adelaide d’Austria era morta nel 1855).
Al di là delle apparenze, però, il loro non fu un matrimonio d’amore, ma una joint venture dinastica. Donnaiolo impenitente, Umberto tradì spesso la moglie e rimase per tutta la vita innamorato della contessa Eugenia Bolognini Litta Visconti, rischiando di gettare un’ombra sull’immagine della famiglia reale. Margherita imparò tuttavia a tollerare le intemperanze del consorte, costruendo con lui un’intesa quasi fraterna, e arrivò a permettere alla rivale di vegliare la salma del marito, dopo la sua morte. Ma anche lei ebbe un flirt extraconiugale tollerato da Umberto: si innamorò del barone Luigi Beck Peccoz, con cui costruì un’intensa sintonia negli ultimi anni della permanenza sul trono.
PERFEZIONISTA.
Sentimenti a parte, la giovane principessa si gettò subito anima e corpo nel ruolo di “prima dama d’Italia”, accattivandosi sia le simpatie degli aristocratici sia quelle dei futuri sudditi. Come? Curò con estrema attenzione la sua immagine pubblica in modo da non apparire mai fuori luogo. «Prima di ogni viaggio ufficiale, si informava sulle usanze delle donne del popolo, vestendosi come loro e iniziando così un processo che porterà in seguito tutte le italiane a identificarsi in lei», afferma l’esperto. «Alla vigilia del trasloco a Napoli, dove i neosposi si trasferirono subito dopo il matrimonio, volendo mostrarsi radicata nelle tradizioni partenopee arrivò persino a prendere lezioni di mandolino, imparando alcune canzoni napoletane». Se per piacere alla gente comune partecipava a feste e raduni o presenziava a iniziative di carità, per conquistare gli aristocratici organizzava balli, concerti e letture, sfruttando gli eventi mondani per radicare il consenso attorno alla dinastia regnante. E non fu certo un compito facile: a Napoli, parte dell’aristocrazia era ancora filo-borbonica e a Roma, solo nel 1870 annessa al Regno d’italia, la cosiddetta “nobiltà nera” rimaneva fedele al Papa. Per vincere ogni diffidenza la principessa ricorse a un mix di diplomazia e charme, mostrando innate doti da comunicatrice, e costruì una fitta rete di relazioni. Alla fine, l’“operazione popolarità” riuscì alla perfezione e dopo l’ascesa al trono di Umberto, nel 1878, la fama della nuova regina non fece che crescere. Durante una visita dei reali a Napoli, Raffaele Esposito inventò la pizza “tricolore” e la chiamò Margherita
TUTTI PAZZI PER LEI.
«La suggestione nei confronti di Margherita diede vita al cosiddetto “margheritismo”, un fenomeno di costume che alla fine del XIX secolo influenzò diversi ambiti della vita sociale, in primis la moda», spiega Regolo.
«Da sempre appassionata di abiti e gioielli, per cui spendeva cifre immense, la regina divenne infatti un’icona di stile, tanto che una delle prime riviste di moda del Paese si chiamerà in suo onore Margherita, il giornale delle signore italiane». Nel frattempo le venne intitolato un po’ di tutto, da nuove pietanze a rifugi alpini. In altri casi, invece, era lei stessa a importare usanze divenute poi patrimonio collettivo, come quella dell’albero di Natale, allestito da Margherita per la prima volta nelle sale del Quirinale a imitazione di quanto avveniva nelle corti nordeuropee. A differenza del marito, per nulla interessato alla cultura e spesso impacciato nei rapporti personali, la regina dimostrò inoltre un’innata curiosità verso molte discipline, dalla musica classica alla letteratura, passando per la scienza e lo spiritismo. Le porte del suo salotto si aprirono quindi a poeti, intellettuali e musicisti, che ricambiarono le attenzioni di sua maestà con lodi piene di retorica. Persino un fervido repubblicano come Giosuè Carducci rimase affascinato da quella che definì la bionda e gemmata sovrana e le dedicò un’ode intitolata Alla regina d’Italia (1878), che gli attirò critiche feroci negli ambienti anti-monarchici. Con alcuni dei suoi ammiratori, tra cui lo stesso grande poeta toscano e soprattutto Marco Minghetti, suo insegnante di latino, la regina intrattenne anche intensi rapporti epistolari.
MAMMA TIGRE.
Entrata nell’immaginario collettivo come incarnazione delle virtù femminili, Margherita si cucì addosso la fama di “mamma” d’Italia e presto fioccarono aneddoti per esaltarne l’istinto materno. Eppure, nei rapporti con il figlio, il futuro re Vittorio Emanuele III (venuto alla luce nel 1869), fu una madre molto diversa da quella raffigurata nella propaganda. Anzi, scaricò su di lui il suo maniacale perfezionismo. «Margherita visse sempre un profondo senso di colpa per il fatto che Vittorio soffrisse di una forma di rachitismo che, ai suoi occhi, lo rendeva inadatto a rappresentare degnamente la dinastia», spiega Regolo. «Con l’intento di forgiare il carattere dell’erede al trono, pretese quindi che eccellesse in tutto a dispetto dei suoi limiti fisici. Nella psiche del principe ciò ebbe effetti devastanti e gli provocò insicurezze e complessi».
VEDOVA.
Nei 22 anni in cui affiancò Umberto sul trono, Margherita non rimase indifferente agli eventi esplosivi che scossero il Paese, segnato da agitazioni popolari e dalla nascita dei primi movimenti operai. Le tensioni culminarono il 29 luglio del 1900 con l’uccisione di Umberto I per mano dell’anarchico Gaetano Bresci. Un evento drammatico a cui la regina reagì con estrema teatralità. Raccolse per esempio gli abiti insanguinati e in seguito anche il proiettile e le fece conservare in un cofanetto in ebano, come si sarebbe fatto con le reliquie di un santo; e contribuì alla creazione del mito del “re martire”, alimentato dai giornali dell’epoca.
CONSERVATRICE.
Nonostante le opinioni fortemente conservatrici, Margherita rimase per molti aspetti una donna moderna», continua l’esperto. «Divenne per esempio una pioniera dell’automobilismo, guidando personalmente le vetture e creandosi un leggendario “parco auto”».
Come regina madre, si eclissò solo in apparenza, continuando a incontrare personalità illustri, tra cui Maria Montessori, a organizzare eventi mondani e a svolgere attività di beneficenza. Il palazzo nel quale si ritirò, a Roma, oggi sede dell’ambasciata americana, sostituì la reggia del Quirinale, utilizzata pochissimo da Elena e Vittorio Emanuele III, la nuova coppia reale. E la “connessione sentimentale” con gli italiani rimase viva fino al momento della morte, giunta a Bordighera il 4 gennaio 1926, quando la regina madre aveva 74 anni. Il treno che la riportò a Roma si dovette fermare ben 92 volte per permettere alla folla di porgerle l’estremo saluto. Senza giri di parole, il Corriere della Sera scrisse che la sua salma era “ormai assurta a simbolo”.
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Le celebrazioni del cinquecentesimo anniversario dalla morte di Leonardo da Vinci proseguono ai Musei Reali di Torino con un nuovo percorso tematico di approfondimento.
Da martedì 10 dicembre a domenica 8 marzo 2020, la Biblioteca Reale propone la mostra Il tempo di Leonardo 1452-1519. Attraverso i preziosi materiali custoditi in Biblioteca, l’esposizione ripercorre oltre sessant’anni di storia italiana ed europea, un periodo di grande fermento culturale in cui si incrociarono accadimenti, destini e storie di grandi protagonisti del Rinascimento, da Michelangelo a Cristoforo Colombo, dal Savonarola a Cesare Borgia, dalla caduta dell’Impero Romano d’Oriente all’avvento del Protestantesimo e all’invenzione della stampa, eventi che mutarono per sempre il corso della storia.
Il percorso si snoda nelle due sale al piano interrato della Biblioteca Reale: il primo caveau, la Sala Leonardo, accoglie una selezione di opere di artisti italiani contemporanei a Leonardo da Vinci, accanto al Codice sul volo degli uccelli. Nove disegni autografi del maestro vinciano accompagnano il celebre Autoritratto: è l’occasione per ammirare uno dei più noti capolavori della storia dell’arte dopo la recente esposizione Leonardo da Vinci. Disegnare il futuro, progettata dai Musei Reali dal 15 aprile al 21 luglio scorso.
La seconda sala presenta manoscritti miniati, incunaboli, cinquecentine, preziose carte geografiche antiche, disegni e incisioni, affiancati da un ricco corredo didascalico, per illustrare i personaggi e i principali eventi storici occorsi durante la vita di Leonardo.
LA MOSTRA
Leonardo nasce a Vinci, piccolo borgo alle porte di Firenze, il 15 aprile 1452. L’anno successivo Costantinopoli è conquistata dai turchi ottomani guidati da Maometto II e l’Impero Romano d’Oriente cessa di esistere. La sua caduta segna non solo la fine dell’Impero Romano, ma soprattutto la fine di un’epoca: molti storici datano al 1453 l’avvento dell’era moderna. Di questo evento straordinario, la Biblioteca Reale conserva preziose testimonianze quali manoscritti, alcuni di provenienza orientale, ed edizioni a stampa antiche.
Negli stessi anni, tra il 1453 e il 1455, il tipografo e orafo tedesco Johannes Gutenberg, nella sua officina di Magonza, lavora con l’incisore Peter Schöffer alla produzione del primo libro stampato a caratteri mobili: La Bibbia delle 42 linee. L’intuizione del tipografo tedesco genera una vera e propria rivoluzione culturale: la produzione dei libri diventa una attività̀ seriale, riducendo tempi e costi rispetto alla realizzazione della copia manoscritta. La Bibbia delle 42 linee è uno dei libri più preziosi al mondo e gli esemplari completi di cui si abbia notizia sono quarantanove, nessuno dei quali conservato in Italia. La Biblioteca Reale possiede una carta del prezioso incunabolo che, in quest’occasione, viene esposta con altri esemplari di volumi per illustrare le principali tappe della diffusione del libro a stampa e le trasformazioni culturali e sociali generate.
Tre anni dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1456, il passaggio della cometa che prenderà il nome dall’astronomo Edmund Halley fa nascere nuove paure in Europa: la sua coda a forma di sciabola, infatti, sembra annunciare altri trionfi islamici. Papa Callisto III ordina ai cristiani preghiere, digiuni e penitenze. Il forte impatto dell’evento nella coscienza collettiva è testimoniato in numerose pubblicazioni e nell’iconografia di libri a stampa e manoscritti.
La Firenze medicea nella quale Leonardo si è formato, esaminata dall’anno della congiura dei Pazzi, il 1478, è una magnifica fucina culturale dove si intrecciano le vite dei più grandi protagonisti del Rinascimento italiano quali Lorenzo de’ Medici, Agnolo Poliziano, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Sandro Botticelli.
Nell’ottobre del 1480, Botticelli, Cosimo Rosselli, Domenico Ghirlandaio e Pietro Perugino lasciano Firenze per dirigersi a Roma, chiamati ad affrescare le pareti della Cappella Sistina: in mostra è esposto un disegno preparatorio del Perugino per la scena del Battesimo di Cristo. Deluso per non esser stato scelto tra i frescanti della Cappella di Sisto IV, per cercare affermazione lontano da Firenze, nella primavera del 1482 il giovane Leonardo si reca nella Milano di Ludovico il Moro, narrata nelle splendide miniature del manoscritto Leggendario Sforza–Savoia. In mostra sono presenti diverse testimonianze della vita di corte nella seconda metà del Quattrocento e, tra queste, un affascinante trattato manoscritto sul gioco degli scacchi e il Codice Sforza del giovane Ludovico il Moro.
Nel 1487 il navigatore portoghese Bartolomeo Diaz, proseguendo le esplorazioni lusitane lungo le coste occidentali dell’Africa, raggiuge e doppia per la prima volta il promontorio all’estremità meridionale dell’Africa, detto Capo Tormentoso, rinominato Capo di Buona Speranza dal re Giovanni II di Portogallo, in riferimento alle interessanti prospettive commerciali ravvisabili dopo la sua scoperta. Vasco da Gama, inviato da Giovanni II nel 1497, porta a termine il tragitto verso le Indie affrontando un viaggio che ridisegna le mappe del mondo medievale, con conseguenze paragonabili all’impresa di Cristoforo Colombo, che raggiunse invece le coste americane nel 1492.
L’esperienza di ingegnere civile e militare, acquisita da Leonardo alla corte milanese, torna utile nel 1502 quando Cesare Borgia lo convoca per sostenerlo nelle sue lunghe e sanguinose campagne militari. In quest’occasione, Leonardo consolida l’amicizia con Nicolò Machiavelli, che probabilmente aveva già avuto modo di conoscere nei suoi trascorsi fiorentini.
Nel 1503, con l’elezione al soglio pontificio di Giulio II, mecenate di progetti dallo straordinario impatto culturale, riprende la Renovatio Urbis politica e culturale di Roma. Al papa della Rovere si deve anche l’incarico a Michelangelo Buonarroti di ridipingere la volta della Cappella Sistina. In mostra è esposto uno splendido studio di Sibilla, opera di Michelangelo, e alcuni fogli coevi raffiguranti dei particolari della volta affrescata.
Il successore di Giulio II, Leone X de’ Medici, chiama Leonardo a Roma; qui l’artista continua i suoi studi senza tuttavia ricevere commissioni ufficiali. Grazie al papa, Leonardo incontra a Bologna Francesco I, re di Francia e mecenate delle arti, che seguirà nel 1517 trasferendosi ad Amboise.
La mostra analizza anche le figure di Cosimo I de’ Medici, nato nel 1519, e di Carlo V, incoronato imperatore del Sacro Romano Impero nell’anno di morte di Leonardo. Immancabili i riferimenti anche ad altri grandi personaggi dell’epoca, quali Albrecht Dürer ed Erasmo da Rotterdam.www.museireali.beniculturali.it
Foto di copertina Daniele Bottallo
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8 anni la lavorazione per il regista russo Andrei Konchalovsky per vedere ralizzato Il Peccato – Il furore di Michelangelo, un film, o meglio come ama lui stesso definirlo, una visione, che rappresenta liberamente, ma con attenzione alla veridicità biografica, alcuni momenti della vita del grande artista rinascimentale con attori e comparse quasi tutti, volti sconosciuti.Il regista, pluripremiato a Venezia, Cannes e Berlino, riesce a mostrare un XVI secolo davvero inedito, perché realistico, ben lontano dai film in costume patinati e dai dipinti dell’epoca. Odori, sporcizie, deformità fisiche e bruttezze abbondano nelle inquadrature, esattamente come la bellezza inaspettata di paesaggi e giovani corpi.
Michelangelo Buonarroti, il protagonista, è un uomo dalle facoltà artistiche superiori, tutt’altro che degno di ammirazione: meschino, disonesto, invidioso, a tratti prodigo e a tratti avaro, pieno di paure e contraddizioni. La sua grandezza creativa è un dono che non lo rende migliore degli altri uomini, soltanto più esposto alle beghe, ai complotti e ai giochi di potere all’interno della Chiesa, quando il testimone passa dalla famiglia Della Rovere alla famiglia Medici. Per Michelangelo, già artista di fama, è difficile muoversi in questo ambiente, fatto di paranoie, pericoli reali, superstizioni e l’ombra costante di avvelenamenti e tradimenti.
La passione per Dante Alighieri lo guida in un viaggio che non ha più come unico scopo la sua sopravvivenza e quella della propria famiglia, ma è anche la ricerca di una trascendenza che possa redimere i peccati e dare un senso più alto alla vita. La spiritualità, il profondo senso del divino e al contempo la carnalità bestiale e la crudeltà dell’epoca sono vividamente descritte nel film, e proprio in virtù del nostro diverso modo di sentire ci consentono un tuffo a ritroso nel tempo. Michelangelo è un genio. Lui stesso, senza falsa modestia, se lo riconosce, soprattutto nel confronto con gli odiati amici-nemici che vede tutti come rivali (divertente la competizione con l’elegante cortigiano Raffaello) ma le sue opere non avvicinano di più l’uomo a Dio, come riusciva a fare La Divina Commedia – massima ambizione dell’arte di quel tempo – ma fanno anzi venire in mente pensieri peccaminosi. Tormentato, contraddittorio, perennemente sgualcito e insonne, Michelangelo è un uomo alla continua ricerca.
Presentato alla Festa del Cinema di Roma, prodotto da Andrei Konchalovsky Studios, Jean Vigo Italia e Rai Cinema, e distribuito in Italia da 01 Distribution, Il Peccato – Il Furore di Michelangelo è interamente girato in Italia, in particolare nelle cave delle Alpi Apuane.
La ricostruzione storica è merito delle consulenze dello scrittore Costantino Paolicchi, dell’architetto e restauratore Antonio Forcellino, tra i massimi esperti dell’artista, dell’etnoantropologo Alessandro Simonicca, mentre le musiche e i suoni del tempo, sono stati curati dallo storico Andrea Baldinotti e da Donato Pirovano, noto dantista.La complessa personalità dell’artista, nonostante le sue debolezze e difetti, anzi proprio per questi, viene resa sullo schermo in modo profondamente umano, e così la ricerca personale di Michelangelo diventa anche la nostra, perché, per citare le parole di Konchalovsky: “la nostra esistenza è fatta di tanti livelli, alcuni di questi livelli non ci sono noti ed è lì che si trova Dio.”
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Uno dei più celebri esponenti della “street art” a livello mondiale, la sua identità resta un mistero.
Dagli anni Novanta, Banksy ha fatto parlare di sé per le sue opere provocatorie e le sue incursioni in musei, parchi divertimenti e case d’asta.
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Oltre che geniale statista, il conte piemontese fu un imprenditore agricolo e non ebbe paura di innovare.
Oltre che statista, il conte piemontese fu imprenditore agricolo.
“In mezzo alle risaie spiegò una perseveranza, un’energia, un’audacia, uno spirito amministrativo e nello stesso tempo d’invenzione, che sarebbero stati sufficienti a trasformare la fisionomia di un regno. Bisognava vederlo all’opera: si alzava all’alba, visitava le stalle, era presente alla partenza dei lavoratori, sorvegliava il loro lavoro in piena canicola sotto il sole ardente”.
A descrivere così Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), alle prese con la grande tenuta di Leri nel Vercellese, fu un suo amico intimo, lo scrittore ginevrino William De La Rive che gli sopravvisse abbastanza da scrivere la sua biografia. Camillo agricoltore? Sì,
perché il giovane, figlio amatissimo ma cadetto senza eredità (il patrimonio sarebbe andato al primogenito Gustavo secondo le regole dell’epoca), doveva trovare da solo un sostentamento e farsi strada.
La sua vocazione non era certo la carriera militare che abbandonò, poco più che ventenne, nel 1831 con grande sollievo dell’esercito, che poco tollerava questo ribelle che pretendeva di scegliere a quali ordini obbedire e non sapeva stare al suo posto. Peraltro nella Torino conservatrice e soffocante di Carlo Alberto il ragazzo era malvisto per le sue idee liberali: la polizia seguiva tutti i suoi passi. Allora il padre, il marchese Michele, che per il figlio minore aveva un debole (avrebbe coperto in seguito molte delle sue perdite al gioco) gli propose di occuparsi della tenuta di Grinzane, nelle Langhe, non distante da Alba (Cn), dove oltre a metà del castello, la famiglia possedeva 200 ettari di colline coltivate a vigneto.
Camillo si buttò nell’avventura con energia e fantasia: per 17 anni fece il sindaco, dirimendo beghe e soprusi in un paesello di 350 anime, costruì case e la chiesa, ripulì i boschi dai malviventi organizzando squadre di contadini, ma soprattutto si occupò di vino. Si racconta che insieme alla marchesa Giulia Colbert Falletti di Barolo si sarebbe avvalso della consulenza
Cavour pensò a come fertilizzare i terreni: fu il primo a importare (e commercializzare) guano in Piemonte di un enologo francese, il conte Louis Oudart, per tentare di produrre un vino rosso che reggesse il confronto con i “grandi” d’oltralpe. Si tratta di una vicenda che alcuni contestano perché non ci sarebbero le prove di questa collaborazione. Per altri si tramutò in un successo: migliorando la tecnica di fermentazione e con l’aggiunta al locale Nebbiolo di piccole quantità di Neiran (uva ormai abbandonata), nacque un ottimo Barolo, vino celebrato ovunque, anche in Francia. Pare che la contessa di Castiglione, quando si trasferì a Parigi nel 1855, ne portasse con sé diverse casse e che Napoleone III, divenuto il suo amante, avesse avuto modo di apprezzarlo.
La vocazione rurale di Cavour trovò modo di esprimersi al meglio quando nel 1835 gli fu affidata la tenuta di Leri e Montarucco che i Cavour avevano acquistato nel 1818: era una distesa piatta e ben irrigata di risaie che, unita a quella vicina di Torrone (comprata da Camillo), superava i 1.200 ettari con un centinaio di salariati e manovali residenti. Camillo amò molto quei luoghi, di cui si occupò fino al 1848, tanto che vi tornò anche quando era ormai immerso nella politica, senza sapere che sarebbe stata proprio la malaria contratta lì a portarlo alla morte appena cinquantenne.
RIFORMATORE.
A Leri (oggi Leri Cavour, disabitata e in stato di abbandono) si rivelò un innovatore. «Praticò la rotazione delle colture, alternandole, aprì canali di irrigazione; provò nuove macchine per vagliare il riso e trebbiarlo; sperimentò nuovi aratri; insomma fu in agricoltura seguace di quello stesso metodo che in politica lo aveva portato ad abbracciare la dottrina liberale: non fermarsi di fronte alle riforme o respingerle, ma ricavare da esse tutto il buono che potevano dare», racconta Italo de Feo in Cavour, l’uomo e l’opera (Mondadori).
All’epoca uno dei problemi delle grandi risaie era quello di superare i sistemi tradizionali e obsoleti di lavorazione del riso, ovvero la battitura dei fasci di risone con bastoni snodabili o il calpestio a opera dei cavalli. Nel 1836 un ingegnere della Lomellina (tra Piemonte e Lombardia), Rocco Colli, aveva perfezionato il trebbiatoio inventato da un milanese, migliorandone il rendimento. Cavour, entrato in contatto con Colli verso la fine del 1843, gliene commissionò uno per la sua tenuta di Leri che dette i risultati
sperati. «In sette anni, dal 1843 al 1850, la produzione di riso era sensibilmente cresciuta, quella di grano e di latte pressoché raddoppiata, quella di mais addirittura triplicata», spiega Rosario Romeo in Vita di Cavour (Laterza).
NUOVE VIE
A questo successo aveva contribuito anche un’altra idea del vulcanico Camillo: importare guano, gli escrementi degli uccelli marini, dall’america (abbondano sulle coste del Cile e del Perù) per concimare i terreni al posto della farina ricavata dagli ossi di animali macellati. Fu il primo a farlo in Piemonte nel 1845 e, vista la resa, negli anni successivi acquistò intere navi di guano dal Perù per rivenderlo ad altri proprietari terrieri.
Non contento, incoraggiò i contadini ad allevare i bachi da seta, come già si faceva in Lombardia, e avviò la coltivazione della barbabietola da zucchero, in questo caso però senza grandi risultati. Anche come allevatore tentò strade diverse dalle solite. «Prendendo come riferimento il 1850, si vede che l’azienda aveva quasi raddoppiato il bestiame, le pecore merinos erano assai preziose e Cavour aveva tentato ogni tipo di incroci per ottenere carne più tenera, latte più abbondante, lana più fine. In tutto il Regno di Sardegna c’erano solo due altre greggi di merinos», racconta Giorgio Dell’arti in Cavour, Vita dell’uomo che fece l’italia (Marsilio).
PUNTI DEBOLI…
Con i braccianti viveva fianco a fianco. “Quella di Leri era un’ospitalità larga, una vita semplice, di fattoria e non di castello: partenza all’alba, ritorni tardivi, desinari abbondanti preparati dalla vecchia donna di casa che portava essa stessa gli arrosti di cacciagione e il risotto fumante sulla vecchia tavola di quercia, attorno alla quale, dopo la frutta, si faceva un’allegra partita di lansquenet (gioco d’azzardo popolare, il cui nome deriva dai lanzichenecchi che lo introdussero in Italia nel XVI secolo, ndr)”, racconta ancora l’amico William De La Rive. E lui stesso scrisse in una lettera: “Qui il contadino è un semplice bracciante, non è disposto come nel resto del Piemonte, ove sfrutta la terra a mezzadria, a resistere a tutte le innovazioni che urtano le sue abitudini inveterate; obbedisce senza ragionare. Basta far dirigere le nuove imprese da gente intelligente e sicura”.
Tutta questa vita bucolica, che già alla fine del 1840 gli garantiva una rendita di 250mila lire l’anno, non impediva a Camillo di sperperare ingenti somme al tavolo verde: nel 1836 a Torino giocando a “goffo” (gioco di carte) perse al Caffè Florio 1.200 lire in un colpo solo. Non riusciva proprio a stare lontano dal gioco, come non resisteva quando gli si prospettava una buona speculazione in Borsa, cosa che gli attirò un bel po’ di critiche. Scrive ancora de Feo: «Era necessario tenersi in contatto con gli operatori economici di tutta l’europa dove l’industria agricola si andava appena sviluppando, allo scopo di calcolare il tempo migliore per vendere un prodotto. Alcune volte accadde che i depositi delle tenute di Leri immagazzinassero grano e riso che mancavano altrove e si dicesse in giro che i Cavour erano speculatori e accaparratori senza ritegno».
… E QUALCHE FLOP
Nella carriera di Camillo ci fu anche qualche buco nell’acqua. Innamorato delle ferrovie che aveva avuto modo di vedere in Inghilterra e che aveva intuito avrebbero favorito la libera circolazione (e l’unità) anche nel nostro Paese, entrò nel 1839 nell’affare del collegamento tra Chambéry e il lago di Bourget, 8 km di binari. Poi dei battelli avrebbero caricato passeggeri e merci e li avrebbero portati, risalendo i canali, fino a Lione. L’impresa fu un disastro: i capitali erano pochi e un ingegnere troppo giovane sbagliò il motore dei battelli. Ci rimise 100mila lire pure Cesare Balbo, entrato nell’affare solo per amore del conte. Anche questa volta arrivò in soccorso il sostegno economico del padre. Le sue intuizioni però andavano già molto lontano. •
LE DONNE DI CAVOUR
Se nell’industria agricola e nel mondo degli affari Cavour si rivelò una fucina di idee, sul fronte sentimentale manifestò fin da giovanissimo una certa inquietudine che lo portò a inanellare relazioni quasi soltanto con donne sposate. Cedettero al suo fascino – fisico tarchiato ma grande verve – in molte tra cui la parigina Melanie Waldor, già amante di Alexandre Dumas. Donne belle, colte, raffinate, ricambiate con una passione che, però, durava poco. Solo due gli fecero battere davvero il cuore: la prima e l’ultima. Anna Schiaffino Giustiniani (nella foto, 1807-1841), genovese, infelicemente sposata, fu la sua passione giovanile. Camillo la conobbe nel 1830 quando l’esercito lo trasferì nella città ligure. Bella, inquieta e con una forte vocazione intellettuale, “Nina”, come la chiamavano in famiglia, era una fervente repubblicana. Fu una relazione importante soprattutto per lei, che si suicidò dopo l’abbandono di Cavour. Tragedia. L’ultimo amore, il più scandaloso, durato fino alla morte improvvisa del conte, fu Bianca Ronzani, non proprio una nobildonna. Tedesca o polacca secondo alcuni, più probabilmente ungherese, ne rimane incerto anche il nome da ragazza, Sovierzy o Sevierzy. Ballerina di professione, arrivò a Torino con il marito, il mimo e coreografo triestino Domenico Ronzani, impresario del Teatro Regio nel 1856, che finì in bancarotta e scappò in Sud America. Bianca rimase, e divenne l’amante del conte, che le comprò una villetta sulle colline torinesi e le garantì una rendita, anche se la relazione rimase sempre clandestina. Alla morte di lui, Bianca andò a Parigi dove morì due anni dopo in miseria.
LEONE IN PARLAMENTO
“Molti degli individui che compongono il Parlamento non corrispondono degnamente all’aspettativa della Nazione”, scriveva Garibaldi nel 1861.
Da uomo schietto e di azione, il generale (a sinistra, in aula in un disegno dell’epoca) non amava i “camaleonti” della politica ed ebbe un rapporto controverso con quel mondo. Eletto più volte deputato, altrettante si dimise, in polemica o deluso per non riuscire a ricompensare l’esercito di “irregolari” che avevano combattuto al suo fianco per la patria. Lungimirante. Nell’aprile del 1861 fu scontro aperto con Cavour quando il primo ministro del neonato Regno d’italia reagì alle accuse di cattivo operato del governo nel Mezzogiorno e mala gestione del dualismo esercito-volontari. La seduta finì in rissa e venne sospesa. Sebbene disilluso, durante i periodi da deputato Garibaldi si batté anche per estendere il diritto di voto (riforma approvata dal Parlamento dopo la sua morte) e per fissare almeno temporaneamente un tetto (5mila lire annue, circa 20mila euro attuali) a tutte le pensioni, stipendi o assegni pagati dallo Stato. Proposta che non fu accolta.
L’ISOLA FATTORIA
“Attraverso il fumo del sigaro egli guardava i suoi nati (gli alberi, ndr) e rideva cogli occhi nel vedere i vividi rami dilungarsi dai tronchi nodosi, e la sua faccia prendeva un’espressione di dolore nell’osservare le piante già secche”, scriveva il patriota Candido Augusto Vecchi rivelando la passione per l’agricoltura del suo amico Garibaldi. Nel 1855 aveva acquistato metà dell’isoletta sarda di Caprera, aspra e difficilmente coltivabile, che con studio e dedizione trasformò in una fattoria rigogliosa, in cui passava giornate intere a dissodare terreno (a destra), costruire muretti, combattere contro vento e siccità. Tutti ospiti. Nel 1865 gli fu donato il resto dell’isola. E negli anni arricchì la sua proprietà: realizzò stalle, un mulino a vento, un pozzo, orti, frutteti, viti e olivi. Oltre a vino e olio, produceva miele e formaggio. Allevava polli, mucche, capre, gli amati cavalli, e agli asini dava i nomi dei suoi avversari (come Pio IX e Francesco Giuseppe, l’imperatore al comando dell’esercito austriaco in Italia durante la Seconda guerra d’indipendenza).
INQUIETO VIAGGIATORE
Prima di contribuire alla causa italiana, Garibaldi fu un abilissimo marinaio mercantile e combatté nelle guerre civili che sconvolsero Brasile e Uruguay negli anni Trenta dell’800. Le sue esperienze e le frequenti fughe come esule (si era rifugiato in Sud America per la prima volta nel 1835) lo portarono a girare il globo e a imparare cinque lingue (spagnolo e portoghese, ma anche francese, inglese e un po’ di tedesco). Le sue peregrinazioni continuarono tra una missione patriottica e l’altra. L’eroe esplorò Sud America, Stati Uniti, Europa Orientale (visse tre anni a Costantinopoli), Nord Africa. Nel 1852 arrivò fino in Cina, costeggiando Australia e Nuova Zelanda. Lettore. Durante i suoi viaggi scoprì la lettura: studiò a memoria i Sepolcri di Foscolo, lesse gli storici greci e romani, ma anche Victor Hugo, Voltaire e Rousseau. Egli stesso scrisse romanzi, poesie, epistolari e le note Memorie. La sua biblioteca a Caprera contava più di 4mila volumi.
INGEGNERE PER ROMA
Preoccupato per le piene del Tevere che colpivano regolarmente Roma, la capitale dell’italia che aveva contribuito a unire, convinse il Parlamento a finanziare un piano di difesa della città. E, benché in età avanzata e tormentato dall’artrite, nel 1875 stupì ancora una volta presentando in aula un progetto tutto suo, appoggiato dall’ingegnere Alfredo Baccarini. Esso consisteva nel regolare il flusso del fiume attraverso un canale di scarico con deviazione nell’aniene, l’altro corso d’acqua della città. Costi-benefici. Il generale propose anche di creare un porto commerciale verso Ostia e di risanare parte delle paludi dell’agro Pontino. Alla fine il Parlamento scelse un progetto meno oneroso, ovvero l’innalzamento delle mura di travertino che vediamo oggi lungo il Tevere.
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Per cellulari e tablet, è da oggi disponibile in sette lingue nei principali store digitali
Una giovane storica dell’arte, Caterina, appassionata della storia dei Medici. Un inspiegabile omicidio consumato tra le ombre di Palazzo Pitti a Firenze. Una intricata serie di misteri esoterici, legati alla reggia e custoditi gelosamente da una setta segreta, che la studiosa, rimasta nottetempo intrappolata nell’immensa reggia, dovrà risolvere, forte solo delle sue conoscenze e di una macchina fotografica, prima che una oscura maledizione plurisecolaremetta a rischio la sua stessa sopravvivenza… e quella dell’intera Firenze.
Sono questi gli ingredienti di “The Medici Game. Murder at Pitti Palace”, il primo videogame in 3D dedicato ad un museo italiano (oltre che il primo videogioco incentrato sulla celebre dinastia granducale e sulla loro fastosa residenza): realizzato per le Gallerie degli Uffizi da Sillabe in coproduzione con Opera Laboratori Fiorentini-Civita dall’associazione TuoMuseo, viene lanciato oggi nei principali store digitali (al prezzo di 2,29 euro, scaricabile anche dalla pagina ufficiale www.themedicigame.com), per Ios e Android, in 7 lingue, italiano, inglese, spagnolo, russo, portoghese, cinese e giapponese.
Strutturato come un’avventura investigativa, vede il giocatore muoversi tra le sale riccamente arredate di Palazzo Pitti nei panni della 27enne ricercatrice (Caterina sta infatti preparando uno studio sulla figura di Cosimo I de’ Medici), affrontando pericolosi avversari e risolvendo gli innumerevoli enigmi celati nei capolavori dei suoi musei, mentre i più terribili segreti più nascosti della leggendaria famiglia si svelano via via davanti ai suoi occhi. La trama, ricca di colpi di scena ed elementi fantasy, è costellata di spunti storico-artisticisui protagonisti delle vicende dei Medici, accuratamente ricostruiti grazie ad approfondite ricerche. I luoghi più suggestivi della reggia sono stati realizzati fedelmente sulla base di una minuziosa campagna fotografica, tesa a restituire ai giocatori in ogni dettaglio l’aura affascinante dell’edificio granducale. Tra questi, oltre alla celebre Sala Bianca, gli appartamenti reali, la Sala del Trono, il Gabinetto Ovale, ed alcuni tra gli spazi più suggestivi della principale pinacoteca di Palazzo Pitti, la Galleria Palatina, come la Sala di Venere, la Sala di Giove, quella di Prometeo, sala di Saturno e dell’Iliade. Non solo: una parte del gioco si svolge anche all’esterno della reggia, in uno degli angoli più suggestivi del giardino di Boboli, la Grotta del Buontalenti.
L’avventura inizia con Caterina che, grazie all’aiuto di un amico, il custode notturno Pietro, si intrufola in Palazzo Pitti, a caccia di un misterioso tesoro. Appena entrata, in Sala Bianca si imbatte in un uomo morente, colpito da un dardo avvelenato: accasciato a terra, le affida prima di spirare un taccuino con strani simboli, pregandola di fuggire dalla reggia e distruggerlo il prima possibile. Troppo tardi: Caterina si rende conto di essere intrappolata nel maestoso edificio avvolto dall’oscurità, e riuscire ad uscirne, da viva, si rivelerà una missione tutt’altro che facile.
Nel corso delle sue peripezie notturne, nello stile del Codice da Vinci, Caterina dovrà non solo sciogliere rompicapo e puzzle legati alla storia dei Medici e dei capolavori artistici delle loro collezioni, ma anche vedersela con svariati personaggi: sul suo cammino incontrerà i malvagi appartenenti alla setta che osteggia le sue ricerche così come inattesi alleati, e persino ‘spiriti guida’. Non mancano sorprese e plot twist nell’evoluzione della trama che accompagna il personaggio: e ad arricchirla con un’atmosfera dalle tinte dark c’è anche l’uso sapiente della luce (ma soprattutto delle ombre) negli spazi del Palazzo, appositamente studiato per incrementare la tensione narrativa.
Come ogni storia che si rispetti, The Medici Game è diviso in capitoli: a partire da oggi, scaricando l’app, saranno subito giocabili le prime tre parti dell’avventura di Caterina. A partire dalle prossime settimane, a coloro che avranno acquistato il gioco verranno gratuitamente messi a disposizione i successivi.
Eike Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi: “The Medici Game offre scorci inediti del nostro patrimonio artistico e architettonico: la speranza è che i giovani possano trarne spunto e curiosità per venire ad ammirare gli spazi originali di Palazzo Pitti, dove l’avventura virtuale si svolge”.
Giuseppe Costa, presidente di Opera Laboratori Fiorentini: “Il filosofo Aristotele mette in relazione il gioco con la felicità. Abbiamo scommesso sul lancio del videogioco The Medici Game perché crediamo nella forza rivoluzionaria del gioco e nel suo potere educativo. Spesso si sente dire che i videogiochi possono nuocere a bambini e adulti. Li si considerano passatempi passivi e poco costruttivi, che favoriscono l’isolamento sociale. In questo caso, invece, risolvere gli enigmi ai quali è sottoposta Caterina stimola l’attenzione e la fantasia oltre ad avvicinare i giovani all’arte e alla storia ben rappresentate con Palazzo Pitti e la famiglia dei Medici”.
Maddalena Paola Winspeare, direttore editoriale di Sillabe: “Un prodotto editoriale al passo con i tempi. Sillabe ha trasformato il grande bagaglio culturale della casa editrice sulla famiglia Medici e su Firenze in un’avventura digitale assolutamente moderna: un avvincente videogame. Tra gli obiettivi del progetto c’è anche quello di avvicinare il pubblico giovane – non sempre abituato a frequentare i musei – ai luoghi più suggestivi e ricchi d’arte del nostro patrimonio. L’edizione in 7 lingue (inglese, italiano, spagnolo, portoghese, russo, cinese e giapponese) favorirà la diffusione del game, destinato a raggiungere così il più ampio numero di giocatori possibile.Uno stimolo alla curiosità e alla conoscenza a 360 gradi”.
Fabio Viola, fondatore di TuoMuseo: “The Medici Game è un tassello fondamentale per il collettivo di TuoMuseo che continua a trasferire immaginari culturali ad un pubblico internazionale. Con oltre 20 ambientazioni fotorealistiche di Palazzo Pitti ricostruite in 3D, migliaia di righe di dialoghi ed una accurata ricerca storica questa opera interattiva diventa strumento per sviluppare ed informare nuovi pubblici ed al contempo espressione artistica e culturale della contemporaneità”.
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Gigi Meroni, in maglia granata dal 1964 al 1967. È un’appendice poetica e tragica che va ad aggiungersi a quel poema epico di un club esauritosi con l’epilogo più devastante e inaspettato. È il tremendismo granata che si fonde con l’inafferrabilità e l’indecifrabilità di un uomo, sia in campo da giocatore con i calzettoni perennemente abbassati, che fuori, dove Meroni diventa sfuggente e refrattario a ogni categorizzazione perbenista dell’epoca. È l’artista che sovente si rifugia nella pittura, la domenica sera dopo la partita, per esprimere la sua parte introspettiva che un campo di calcio non gli permetteva di sprigionare.
È l’autarchico che si disegna i vestiti, il folle che gira con una gallina al guinzaglio, l’istrionico che finge di essere un giornalista e chiede alla gente: “Lei conosce Gigi Meroni?”, il guascone con scarpe dai tacchi altissimi alla guida di una Balilla, ma è anche il timido che arrossisce davanti a una telecamera per rispondere alle incessanti domande sui suoi capelli lunghi. È l’ala destra che ama la libertà di stare a briglie sciolte in campo, come una farfalla, e mal digerisce i ruoli centrali. È l’uomo che si innamora follemente e alla sua maniera, ovvero andando controcorrente rispetto ai canoni dell’epoca, di una donna che lo protegge fino al giorno in cui un infame destino se lo porta via per sempre.
Luigi Meroni, nasce a Como il 24 febbraio del 1973. Rimane orfano di padre e la mamma per mantenere i suoi due figli Celestino, Luigi e Maria) fa la tessitrice.
Il suo primo lavoro è disegnare cravatte e foulard di seta, ma i guadagni non sono granche’.
L’incontro con Cristiana Understadt, polacca e giovane giostraia è quel colpo di fulmine che ti cambia la vita per sempre, solo che in questo caso non deve superare un avversario in campo, ma un aiuto regista che Cristiana sposerà, pur amando Gigi, ma che dopo poche settimana lascerà, diventando cosi una donna divorziata, per raggiungere Gigi.
Malelingue, convenzioni morali e religiose dell’epoca, non modificano l’amore per Cristiana.
Era il suo porto sicuro, Cristiana era per Gigi fonte di ispirazione. Ogni sera tornando dagli allenamenti si fermava dal fioraio e le portava dei fiori. Cristiana ottenne l’annullamento del matrimonio poco prima della morte di Gigi.
“Cosa preferirebbe tra un gita al mare, una gita in montagna e una passeggiata in bici?”
“Preferirei restare a casa a dormire …”Nella Torino granata ancora ferita a morte dalla tragedia che 15 anni prima spazzò via in un colpo solo la squadra più forte di tutti i tempi, Gigi Meroni irrompe con la sua capigliatura e l’indole anarcoide prendendosi tutta la scena.
“Lei deve avere un disegnatore speciale per i suoi vestiti”
“Sì, sono io il disegnatore speciale… li disegno e li porto dal sarto (tratta da “Un Beatle italiano”, intervista di Emilio Fede)A 23 anni viene convocato per la prima volta nella Nazionale Maggiore allenata da Edmondo Fabbri. Il rapporto con il tecnico romagnolo è sin da subito tutt’altro idilliaco. “Se ti tagli i capelli la maglia numero 7 è tua” , gli dice Fabbri.
A 19 anni, in occasione di una convocazione nella Nazionle B, Gigi cede all’invito che lui reputava seccante di tagliarsi la chioma da Paul McCartney, ma a 23 anni rifiuta motivando con frasi eloquenti la sua scelta: “Quella richiesta è stata un attentato alla mia vita privata. Credo di assolvere fino in fondo i miei obblighi verso lo sport, perché dovrei rinunciare a quel poco di vita privata che mi resta? Non è una questione di capelli o di gusti musicali, è una questione di libertà”.
A prendere le sue difese è prima il cantautore Luigi Tenco a Genova e poi un uomo d’altri tempi come Nereo Rocco, che lo assolve sempre rispondendo con le sue tipiche battute bonarie: “Lui è come Sansone, probabilmente se gli tagliamo i capelli rischiamo che non riesca più a giocare bene…”.
La sorella, Maria Meroni, ricorda in un’intervista che a casa arrivavano i vaglia con i soldi per invitare Gigi ad andare a tagliarsi i capelli. Non va certamente meglio quando il Torino gioca in trasferta: Moschino, suo compagno di squadra, racconta che prima dell’inizio delle partite il rito d’obbligo era recarsi sotto la curva avversaria per raccogliere le monetine che i tifosi tiravano. Soldi che sarebbero serviti per… l’aperitivo del dopo partita.
15 ottobre 1967. È sera, Meroni e il suo amico e compagno di squadra Fabrizio Poletti abbandonano l’usuale ritiro post-partita. Gigi non ha con sé le chiavi di casa e per avvertire Cristiana l’unico modo è farle una telefonata dal bar che frequenta spesso. I due attraversano un trafficatissimo Corso Re Umberto.
“Muore giovane chi è caro agli Dei” (Menandro)
Al funerale partecipa una folla di 20.000 persone. Tutti si stringono intorno alla famiglia di Meroni e al Torino, dal carcere “Le Nuove” alcuni detenuti fanno una colletta per mandare fiori.
La Diocesi di Torino si oppone, però, al funerale religioso di un “peccatore pubblico” che conviveva con una donna sposata e critica aspramente don Francesco Ferraudo, cappellano del Torino calcio.
Il parroco, bastian contrario come Meroni, decide di celebrarlo comunque.
“Lei è di un’altra generazione e, forse, non può capirmi; io faccio così non per esibizionismo, ma perché sono così; perché anelo alla libertà assoluta e questi capelli, questa barba sono uno dei segni di libertà. Può darsi che un giorno cambierò quando la mia libertà sarà un’altra”.
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VIVIAN MAIER, papa’ austriaco e mamma francese, nasce a New York nel quartiere del Bronx il 1 febbraio del 1926.
Il papà abbandona presto la famiglia e Vivian trascorre gran parte della sua giovinezza in Francia con la madre Marie e l’amica Jeanne Bertrand, fotografa e scultrice affermata. Torna dagli Stati Uniti nel 1951 ed intraprende la carriera di bambinaia, mestiere che farà per tutta la vita.
Vivian ha una grande passione: la fotografia! nel 1951 acquista una Rolleiflex, una macchina fotografica eccezionale. Aveva bisogno di immortalare cose, persone, luoghi, una passione bruciante che, in cinque decadi, le fa scattare oltre 100.000 foto, molte delle quali tra Chicago e New York. Sviluppava le sue foto in un piccolo bagno della loro casa, che era divenuto per lei luogo prezioso. Quegli anni furono prolifici; andava nei parchi con i suoi bambini e scattava, passeggiava per le strade e scattava, andava a fare la spesa, a svolgere delle commissioni, a pensare, a leggere… e scattava.
Una volta, sull’autobus, guardando fuori dal finestrino d’un tratto vide una donna di una bellezza sofisticata, portava una collana di perle, aveva delle sopracciglia perfette per un volto perfetto, indossava un soprabito elegante, guardava in un punto, ma sembrava fosse persa. Rubo’ il suo sguardo.
Nel 1959 Filippine, Thailandia, Yemen, India, Egitto. Culture ignote, popoli lontani, mari e foreste e templi e storie. Tanta bellezza. Quando torna a Chicago continua a fare la governante e continua a fotografare.
Ovunque lavorasse, portava con se il suo materiale, le foto, e i negativi. Usava la fotografia, per immortalare l’incanto di tutto quanto la circondava. Non aveva interesse per le grandi imprese o i grandi uomini, voleva ricordare per sempre la normalità. Faceva esattamente quello che facciamo noi oggi, andava per strada e puntava il suo obbiettivo alla vita.
Vivian, uno spirito libero e curioso, una donna indipendente che decide di rimanere sola e senza particolari amicizie per tutta l’esistenza; dedita ai Gensburgs, ricca famiglia di Chicago di cui alleva i tre figli, trovandosi poi in povertà quando i ragazzi crescono.
Non potendo più pagare l’affitto di casa, è costretta a cedere i propri bagagli di ricordi: scatole contenenti tantissime cianfrusaglie collezionate negli anni, da cappelli a vestiti, da scontrini ad assegni, fino alle fotografie. Che John Maloof, giovane americano immobiliarista, compra nel 2007 ad un’asta, per soli 380 dollari, trovando centinaia di negativi e rullini ancora da sviluppare.
Così, mentre nel 2008 Vivian batte la testa scivolando su una lastra di ghiaccio nella downtown Chicago, si aggrava rapidamente e muore nell’aprile del 2009, il mondo viene a conoscenza del suo immenso lavoro e della sua arte, di quel “teatro di vita”, recitato davanti ai suoi occhi, che ha saputo catturare in momenti diventati epici.
Racconta in oltre cento opere, selezionate dalla curatrice Anne Morin, la vita quotidiana americana vista con gli occhi di una sublime fotografa che per tutta la vita non si è mai considerata tale.
Alla Palazzina di Caccia di Stupinigi è presente lo stesso modello di macchina fotografica utilizzata dalla Maier e la riproduzione di una camera oscura.
Uno staff specializzato ed un team di esperti coordineranno i laboratori didattici mirati alla comprensione più profonda del mondo di Vivian e di quello fotografico in senso più ampio.
I biglietti sono acquistabili in prevendita presso il circuito TicketOne (on-line su www.ticketone.it ed in tutti i punti vendita affiliati).
Il costo di prevendita è di base di 1.50 euro, ma cambia a seconda della modalità di acquisto scelta (ritiro presso il luogo dell’evento o spedizione a casa con corriere).
Durante i giorni e gli orari di apertura della mostra sarà possibile acquistare i biglietti anche direttamene al botteghino, senza costo di prevendita, presso la Palazzina di Caccia di Stupinigi, in Piazza Principe Amedeo 7 a Nichelino (TO).