Categoria: Biografie

  • In occasione della ricorrenza del matrimonio di Agnolo e Maddalena Doni, la coppia che commissionò a Michelangelo il famoso Tondo Doni (che fu raffigurata in due ritratti, altrettanto celebri, di Raffaello), nasce una giornata speciale dedicata all’amore nella Galleria degli Uffizi: il 31 gennaio, in occasione dell’anniversario delle fastose nozze di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi a Firenze, le coppie che visiteranno gli Uffizi pagheranno un solo biglietto, avendo così a disposizione un ingresso gratuito.

    In occasione dell’evento, gli Uffizi lanceranno anche una campagna su Instagram: tutte le coppie che saranno in galleria il 31 gennaio sono invitate a postare selfie davanti alle loro opere preferite sul social, utilizzando i tag #Uffizi e #Festadeidoni. Il profilo Instagram delle Gallerie ne riposterà una selezione durante la giornata.

    Il tondo di Michelangelo, ed i due ritratti di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi sono visibili, da alcuni mesi, nella nuova sala al secondo piano della Galleria dedicata ai capolavori dei due maestri. Per la prima, nella storia degli Uffizi, le tre opere vengono esposte insieme. La famiglia Doni, ricchissimi collezionisti e mecenati fiorentini, erano tra i protagonisti indiscussi del mercato dell’arte a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento: solo loro, oltre al Papa, ebbero la possibilità di commissionare opere sia di Raffaello che di Michelangelo. Nell’ambito della Festa dei Doni, ci saranno nella sala, per tutta la giornata, esperti che racconteranno ai visitatori la storia del matrimonio tra Agnolo e Maddalena, oltre a quelle dei tre capolavori di Michelangelo e Raffaello. Nel pomeriggio inoltre ci sarà una lezione sul Tondo all’auditorium Vasari della Galleria.

    “Vogliamo offrire a tutti gli innamorati un piccolo ‘anticipo’ di San Valentino”, spiega il direttore del complesso museale Eike Schmidt, “e celebrare simbolicamente la grandezza dell’amore nella ricorrenza di un’unione, quella tra Agnolo e Maddalena, che ha segnato per sempre la storia dell’arte. A questa coppia infatti, nientemeno che Raffaello fece il ritratto, e per loro il divino Michelangelo realizzò il celebre Tondo con la Sacra Famiglia. Dunque per gli Uffizi il 31 gennaio non può che essere la Festa dei Doni, cioè la giornata in cui trionfa l’Amore”

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  • La mostra documenta la vita e le azioni di due donne che impressero un forte sviluppo alla società e alla cultura artistica nello stato sabaudo tra il 1600 e il 1700: Cristina di Francia (Parigi 1606 – Torino 1663) e Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours (Parigi 1644 – Torino 1724). Due figure emblematiche della storia europea, che esercitarono il loro potere declinato al femminile per affermare e difendere il proprio ruolo e l’autonomia del loro StatoLe azioni politiche e le committenze artistiche delle Madame Reali testimoniano la ferma volontà di fare di Torino una città di livello internazionale, in grado di dialogare alla pari con Madrid, Parigi e Vienna.

    Con oltre 120 opere, tra dipinti, oggetti d’arte, arredi, tessuti, gioielli, oreficerie, ceramiche, disegni e incisioni, la mostra ripercorre cronologicamente la biografia delle due Madame Reali e racconta le parentele che le collegano alle maggiori case regnanti europee, le loro azioni politiche e culturali, le scelte artistiche per le loro residenze, le feste sontuose, la moda e la devozione religiosa. L’allestimento sviluppa un itinerario attraverso la vita di corte in epoca barocca, negli stessi ambienti in cui vissero le due dame, documentate non solo nella loro immagine politica, ma anche in quella più intima e femminile.

    Cristina di Francia, le feste, i luoghi delle delizie, la difesa del potere.
    Cristina, o più esattamente Chrestienne de France, figlia del re di Francia Enrico IV di Borbone e di Maria de’ Medici, giunge da Parigi a Torino nel 1619 all’età di tredici anni, sposa di Vittorio Amedeo I di Savoia. La introduce in mostra una splendida serie di ritratti che costituiscono il suo album di famiglia: i genitori, sovrani di Francia; il fratello Luigi XIII, salito al trono nel 1610 in seguito all’assassinio del padre, e la sorella Enrichetta Maria, regina d’Inghilterra sposa di Carlo I Stuart. Il matrimonio rinsalda l’alleanza tra il Piemonte e la Francia, rafforzando la posizione dei Savoia tra le Case reali d’Europa. Amante delle feste, Cristina conserva la tradizione spagnola dello zapato, celebrato nel giorno di San Nicola con lo scambio di ricchi regali, e inaugura a Torino la stagione dei balletti di corte su esempio di Parigi. Autore di molti testi e coreografie è il conte Filippo d’Aglié, presente in mostra in un bel ritratto inedito, cortigiano raffinato, suo amante e suo fedele consigliere. Cristina fa ampliare e arredare due residenze extra-urbane: il grandioso castello del Valentino, sul Po, e la Vigna in collina (ora nota come Villa Abegg). Accanto ai putti giocosi di Isidoro Bianchi, ai motti, agli emblemi eloquenti, tema onnipresente è la natura: dipinti di fiori e di animali, parati in cuoio, fiori ricamati e nature morte. Rimasta vedova nel 1637, Cristina assume la reggenza per il figlio minorenne Carlo Emanuele e si scontra con i Principi suoi cognati, Maurizio e Tommaso di Savoia-Carignano, sostenitori degli Spagnoli. La guerra civile si protrae fino al 1642, quando l’accordo fra la duchessa e i cognati è concluso col matrimonio della figlia Ludovica con lo zio, il Cardinal Maurizio. Cristina riesce a mantenere l’indipendenza del Ducato e del proprio potere, che cede formalmente al figlio nel 1648. Di fatto, però, continua a governare fino alla morte nel 1663.

    Maria Giovanna Battista, donna di pace, di carità, di grandi committenze. 
    Nipote di Enrico IV di Francia, Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours, dama di corte della regina di Francia, lascia nel 1665 la reggia di Luigi XIV, il Re Sole, per diventare duchessa di Savoia. Vedova dal 1675, Maria Giovanna Battista regge il ducato fino al 1684, quando il figlio Vittorio Amedeo II assume d’autorità il potere. Nel periodo in cui governa si trova a fronteggiare la povertà causata in Piemonte dalle grandi carestie degli anni 1677-1680 e, per aiutare i più bisognosi, istituisce un Monte di prestito e fonda anche l’ospedale di San Giovanni Battista nell’area di espansione orientale della città. Sviluppa nel contempo sogni ambiziosi con la speranza di vedere il figlio occupare il trono del Portogallo e promuove la nascita dell’Accademia di Belle Arti di Torino. Per la sua residenza, Palazzo Madama, Maria Giovanna Battista nel 1718 invita l’architetto messinese Filippo Juvarra a realizzare il grandioso scalone d’onore di Palazzo Madama, capolavoro assoluto del Barocco europeo.

    La vita a palazzo: regole, piaceri, devozione.
    La quotidianità della vita di palazzo è ben presente in mostra con dipinti e oggetti: le conversazioni tra le dame, la tavola, il momento della toeletta con i piccoli oggetti preziosi. 
    La vita a corte è retta da precisi cerimoniali e si svolge in ambienti che rispecchiano il gusto delle duchesse: mobili di gusto francese, come il tavolino in tartaruga e metallo pregiato del famoso ebanista Pierre Gole (Bergen, 1620 – Parigi, 1684), i piani di tavolo in stucco dipinto, i parati in “corame d’Olanda”, gli orologi.

    Nel corso dei decenni, a Torino come in Europa, cresce sempre più l’attrazione per l’Oriente con gli arredi “alla China”, le porcellane e i prodotti delle colonie: il thè, il caffè, il cioccolato.

    Nella vita delle Madame Reali la devozione religiosa ha una parte importante. Cristina promuove l’arrivo degli Ordini Carmelitani a Torino e Maria Giovanna Battista mantiene un proprio appartamento nel monastero delle Carmelitane. Le icone sacre e i libri di preghiera sono sempre fedeli compagni della brillante vita di corte.

    La moda e l’immagine del potere.
    Cristina afferma la moda del vestire alla francese, una scelta “politica” che si sostituisce al vestire alla spagnola degli anni di Carlo Emanuele I e di Caterina d’Austria. Mutano le silhouettes, la scelta dei tessuti e dei gioielli, con i diamanti e le perle come protagonisti, guidate dalle istruzioni dei ministri a Parigi. Di là vengono i guanti profumati e gli abiti ricamati dei duchi, che si portano con pizzi d’argento e d’oro, di Venezia e di Fiandra, sposando appieno la dilagante passione per il merletto. Come reggenti, Cristina e Maria Giovanna Battista sono ritratte in lutto, sviluppando un’immagine che dà sostegno alla loro autorità e al loro potere.

    Le opere esposte provengono da prestiti di collezionisti privati e di importanti musei italiani e stranieri: il Polo Museale del Piemonte, con ritratti dalla quadreria del Castello di Racconigi, i Musei Reali di Torino, la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, le Gallerie degli Uffizi e il Museo degli Argenti di Firenze, il Museo dei tessuti e il Museo di Belle Arti di Lione, il Museo del Rinascimento di Ecouen, il Museo del Prado di Madrid, il Museo del Castello di Versailles. Tra gli artisti in mostra: Anton Van DyckFrans Pourbus il giovaneGiovanna GarzoniFrancesco Cairo, Philibert Torret, Giovenale Boetto, Jacques Courtilleau Charles Dauphin, Pierre Gole, Carlo Maratta, Maurizio Sacchetti, Filippo Juvarra.

  • Valentina, la donna di una vita.

    Per Guido Crepax ma anche per milioni di uomini (e di donne) nel mondo. Arriva ai Musei Civici di Bassano del Grappa, affascinante protagonista di una esposizione originale quanto spettacolare, totalmente nuova rispetto alle recenti mostre che a lei e al suo creatore sono state dedicate in anni anche recenti a Roma e a Milano.

    Chiara Casarin, direttore dei Musei Civici di Bassano del Grappa, e Giovanni Cunico, Assessore alla Cultura del Comune, spiegano il perché di questa mostra bassanese: “Valentina è una delle icone femminili più affascinanti della storia del fumetto italiano. Il suo creatore, Guido Crepax, sarebbe stato il più ambito ospite nella nostra commissione per la Biennale di Incisione e Grafica Contemporanea che si terrà nella primavera del 2019 che questa mostra vuole anticipare nella stessa sede (la Galleria Civica dei Musei di Bassano del Grappa) e con un omaggio, una dedica al grande autore internazionalmente ammirato.

    Il progetto espositivo è stato concepito dai tre figli di Crepax ad hoc per questa occasione e si conferma come momento di produzione culturale rivolta al pubblico più ampio e vede il suo focus nel lavoro di un artista contemporaneo volto alla valorizzazione delle tradizioni e del genius loci a partire dalle collezioni dei Remondini, con le loro stampi popolari, per arrivare alla sesta Biennale che ormai è un appuntamento consolidato della città sul Brenta”.
    Valentina e Crepax sono i co-protagonisti della mostra al Museo Civico che ripercorre le tappe della vita di entrambi.

    “In questa ricerca delle origini del lavoro di una vita, che trascende l’ambito del fumetto e colloca l’Autore e il suo personaggio tra i testimoni di quarant’anni di vita italiana, la città di Venezia è un tassello fondamentale nella sua formazione”, anticipano i curatori.

    Infatti, vent’anni prima della nascita di Valentina (pubblicata per la prima volta sulla rivista Linus nel 1965), un Crepax appena dodicenne, aveva realizzato, proprio a Venezia (dove aveva abitato con la famiglia tra il ’43 e il ’45 per sfuggire alla guerra), i suoi primi albi a fumetti ispirati a film horror degli anni ’30/’40 e sognava di diventare un autore di storie a fumetti. Figlio d’arte di un musicista, primo violoncello alla Fenice di Venezia e poi alla Scala di Milano, e fratello di un’emergente manager discografico, Crepax ottenne i primi incarichi professionali in ambito musicale illustrando centinaia di cover di dischi di tutti i generi musicali. Notato come illustratore adatto per la pubblicità, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, realizzò importanti campagne pubblicitarie per Shell, Dunlop, Campari e i tessuti Terital. Contemporaneamente, lavorò anche a sigle e scenografie per alcuni programmi televisivi, scenografie di spettacoli teatrali e storyboard cinematografici. Disegnò anche centinaia di illustrazioni per riviste (Novella, Tempo Medico, ecc.) e copertine di libri.

    Dopo una parentesi dedicata al principale passatempo dell’autore (realizzare giochi da tavolo basati sulla sua passione per la ricostruzione storica e caratterizzati dal suo incredibile gusto estetico), la mostra si focalizza sul personaggio di Valentina che, unico nel mondo dei fumetti, invecchia, vive in una realtà possibile (anche se con frequenti divagazioni oniriche) ed ha una psicologia complessa, passioni e idee che possono essere comuni a molte donne reali. L’ultima tappa del percorso dedicato all’evoluzione artistica dell’autore (al piano terra), sarà dedicata alla scelta di Crepax, innovativa per il mondo tradizionale del fumetto, di fare delle donne le protagoniste delle proprie storie. Non solo per un fatto estetico o legato alla valenza erotica delle sue storie, ma per distinguersi dagli altri fumetti, uscire dal solco della tradizione, esplorare mondi psicologici e stili narrativi nuovi e, talvolta, anche per far discutere, riflettere, scandalizzare. Il primo piano sarà dedicato, invece, ai tanti contenuti video dedicati all’Autore e al personaggio di Valentina e ai possibili sviluppi futuri: la video arte e la colorazione delle pagine legate in un’installazione dove le pagine si colorano progressivamente e grandi tavole su cavalletti forniscono un saggio dell’ultimo progetto editoriale di Archivio Crepax: la nuova collana con le storie più belle a colori realizzata per la Repubblica.

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  • Il misterioso artista pubblica un video su Instagram in cui racconta di aver nascosto il meccanismo trita-documenti anni fa nel quadro, “nel caso in cui fosse finito all’asta”. “Anche l’urgenza di distruggere è un’urgenza creativa”, scrive citando Picasso

    Banksy cita Picasso per spiegare la sua ultima provocazione: l’opera che si è autodistrutta dopo essere stata venduta all’asta da Sotheby’s, a Londra, per un milione di sterline. “Anche l’urgenza di distruggere è un’urgenza creativa”, scrive l’artista sul suo profilo Instagram prendendo in prestito le parole del pittore spagnolo. E allega un video in cui racconta cos’è successo.

    Il racconto di Banksy 

    Nel breve filmato, il misterioso artista rivela di aver costruito “segretamente”, qualche anno fa, un trita-documenti all’interno dell’opera “Bambina con il palloncino”. “Nel caso in cui fosse finita all’asta”, racconta intervallando delle scritte alle immagini che mostrano una persona incappucciata che installa il meccanismo nel quadro. Seguono, poi, le immagini della vendita a Londra, con una sirena che suona nel momento in cui il battitore dichiara venduto il quadro e, pochi istanti dopo, la tela che inizia a scorrere verso il basso e viene tagliuzzata in decine di strisce dal trita-documenti nascosto nella cornice.

    Non è chiaro se l’artista fosse in sala ed abbia azionato egli stesso il meccanismo nascosto. Poco dopo l’incidente, un uomo vestito di nero con cappello e occhiali da sole è stato visto parlottare con le guardie all’ingresso della casa d’aste.

    A far propendere per questa ipotesi è anche il fatto che, sulla sua pagina Instagram, Banksy ha condiviso una foto del dipinto con il commento: “Vai, vai… andato”.

    Stimato tra le 200mila e le 300mila sterline (225mila e 341mila euro), ad aggiudicarsi il quadro era stato un anonimo compratore per telefono, offrendo 1.042.000 sterline (1.180.000 euro). Una cifra da record per l’artista.

    Il quadro era stato autenticato da Pest Control, l’organizzazione che agisce per conto di Banksy. Aveva firma e dedica sul retro e “cornice fatta dall’artista”. Era stato acquistato dal venditore direttamente dall’artista nel 2006.

    “Siamo stati Banksyzzati”, ha ironizzato Alex Branczik, senior director di Sotheby’s. “Non ci è mai capitato in passato che un quadro si distruggesse spontaneamente dopo aver raggiunto una cifra da record per l’artista. Siamo impegnati a capire che cosa possa significare nel contesto di un’asta”.

    Ora il quadro potrebbe valere il doppio

    Prima dell’asta, Sotheby’s aveva presentato la cornice dorata posta attorno alla tela “Girl with balloon” come “un elemento integrante dell’opera, scelta dallo stesso Banksy”. Le immagini della vendita hanno fatto il giro del mondo. C’è chi giura che l’artista – la cui identità è segreta – fosse in sala a Londra e abbia azionato lui stesso il meccanismo e girato il video finito subito sui social. Altri ipotizzano, invece, che fosse lui l’acquirente della “Bambina con il palloncino”. Poche ore dopo l’asta, Banksy aveva già pubblicato una foto sul suo profilo Instagram del momento in cui il dipinto veniva tagliuzzato a striscioline. “Going, Going, Gone!”, aveva scritto sotto all’immagine, citando le parole pronunciate dal banditore quando aggiudica a un cliente il lavoro di un artista. Il quadro tagliuzzato, proprio per il sorprendente finale dell’asta, potrebbe adesso valere il doppio.

    Credit: Instagram/Banksy 

  • Fino 24 febbraio 2019 le Sale dei Paggi della Reggia di Venaria ospitano la grande mostra di Elliott Erwitt, uno dei fotografi più  importanti e celebrati del Novecento.

    Elliott Erwitt Personae è il titolo della prima retrospettiva delle sue fotografie sia in bianco e nero che a colori. I suoi scatti in bianco e nero sono ormai diventati delle icone della fotografia, esposti con grande successo a livello internazionale, mentre la sua produzione a colori è quasi del tutto inedita.

    Con oltre 170 immagini, il percorso espositivo mette in evidenza l’eleganza compositiva, la profonda umanità, l’ironia e talvolta la comicità del grande fotografo americano: tutte caratteristiche che rendono Erwitt un autore amatissimo e inimitabile, considerato il “fotografo della commedia umana”.

    Marylin Monroe, Che Guevara, Sophia Loren, John Kennedy, Arnold Schwarzenegger, sono alcune delle celebrità colte dal suo obiettivo ed esposte in mostra. Su tutte Erwitt posa uno sguardo acuto e al tempo stesso pieno di empatia, dal quale emerge l’ironia e la complessità del vivere quotidiano. Con lo stesso atteggiamento, d’altra parte, rivolge la sua attenzione a qualsiasi altro soggetto. Con il titolo Personae, si allude proprio a questa sua adesione alla vita concreta degli individui e, nello stesso tempo, a un senso della maschera e del teatro, che si manifesta soprattutto in alcune foto realizzate con lo pseudonimo di André S. Solidor, lo pseudonimo che Erwitt dedica senza diplomazia al mondo dell’arte contemporanea ed a un certo tipo di fotografia. In questo modo dà vita ad un suo alter ego irriverente, che ama tutto ciò che E.E. detesta: il digitale e il photoshop, la nudità gratuita e l’eccentricità fine a sé stessa. Una maschera dissacrante che prende in giro certi artisti, con un’esilarante parodia, che fa sorridere e, nello stesso tempo, invita a una seria riflessione sul mercato dell’arte.

    Personae è la più grande retrospettiva mai fatta di Elliott Erwitt, e certamente la più peculiare, unisce infatti per la prima volta una grande collezione di immagini a colori alle sue icone in bianco e nero, e chiude con il racconto dello sbalorditivo progetto che Erwitt ha firmato con lo pseudonimo Andrèe S. Solidor” afferma Biba Giacchetti.

    Curata da Biba Giacchetti con il progetto grafico di Fabrizio Confalonieri, la mostra è organizzata da Civita Mostre con il Consorzio delle Residenze Reali Sabaude, in collaborazione con Sudest57.

    Tutte le foto scelte, nel formato di cm. 50 x 60 e di cm. 70 x 100, sono stampate con particolare cura e allestite con cornici fine art e vetro antiriflesso. Un’accurata audioguida in italiano ed in inglese è disponibile per tutti i visitatori, inclusa nel biglietto di ingresso.

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    Foto di copertina: SPAIN, Madrid 1995 – Prado Museums

    Credit: Elliot Erwitt/MAGNUM PHOTOS

     

  • Foto Gallery Conferenza Stampa 21 settembre 2018

    Antje Rieck è nata a Ulm in Germania, vive a Monaco fino al suo trasferimento a Torino a meta degli anni ’90. Qui sperimenta per la prima volta il marmo con il quale conduce la sua ricerca verso un linguaggio di rigore e purezza.

    Dal 1997 è presente a livello internazionale in mostre collettive per personali.

    Antje Rieck riceve diversi premi e riconoscimenti, tra i quali il premio Cesare Pavese per la scultura nel 1997.

    Partecipa alla Biennale internazionale di scultura, al premio Targhetti Art Collection, in cui è stata finalista e ottiene importanti commozione private e pubbliche, tra le quali spicca il monumento per Canale d’Alba.

    Nel 2006 è stato inaugurato il monumento ai Martiri delle Fosse Ardeatine commissionato da Italgas per la città di Roma.

    Ha ottenuto un particolare apprezzamento con la creazione scenografica realizzata per la Fondazione Merz in occasione della collaborazione con il Teatro Regio per l’Opera “Acqua” in occasione della Biennale di Venezia 2011 ha esposto nelle mostra Grasstress a Murano.

    Il lavoro di Antje Rieck esamina l’idea di trasformazione, trascendenza e metamorfosi, concependo i cirrosi naturali, compreso quello dell’uomo, come un recipiente poroso in dialogo con il suo ambiente.

    Nelle installazione scultoree specificatamente allocate, l’artista utilizza materiali come il marmo, il legno e la pietra, coriandoli spesso con altri media, tra i quali la fotografia, il video, l’animazione digitale e la performance.

    A Palazzo Biandrate Aldobrandino di San Giorgio, sede storica dea Società Reale Mutua presenta una nuova scultura di acciaio, ferro e cristalli che, in processo chimico costante, alterneranno la loro conformazione in ragione delle caratteristiche dell’ambiente.

    La scultura progettata e realizzata espressamente per il cortile del palazzo, svolge come una funzione di catalizzatore di energie, mutando il proprio assetto, in modo casuale e non del tutto prevedibile.

    Di cristalli e metallo sono anche le opere collocate all’interno del Museo Storico della Reale Mutua, con creazioni cristalline che crescono su forme realizzate come supporto e che in qualche caso ricordano l’elica del DNA.

    Tutto il lavoro di Antje Rieck è indirizzato all’indagine formale del limite tra caso e prevedibilità, tra potenza trasformata della natura e lavoro.

    Per maggiori info su Art Site Fest 2018

     

  • In voluta concomitanza con la riapertura della Cappella della Sindone di Guarino Guarini, restaurata dopo il devastante incendio dell‘11 aprile 1997, Palazzo Madama dedica una mostra a La Sindone e la sua immagine, che raccoglie un centinaio di piccole e grandi opere d’arte realizzate tra il 1500 fino al 1900, raffiguranti la Sindone con intenti devozionali e celebrativi.

    Organizzata in collaborazione con il Polo Museale del Piemonte e il Centro Internazionale di Sindonologia di Torino, la mostra ha come nucleo costitutivo dipinti e incisioni provenienti dalla ricchissima collezione sindonica dell’ultimo Re d’Italia, Umberto II, oggi divisa tra il Castello di Racconigi e la Fondazione Umberto II e Maria Josè di Savoia che ha sede Ginevra.

    Molti di essi erano stati esposti proprio a Palazzo Madama nel 1931 in occasione delle nozze di Re Umberto II con la principessa Maria Josè del Belgio. Altre opere e documenti rari e significativi sono generoso prestito del Museo della Sindone di Torino.

    La Sindone di Torino è una realtà misteriosa e dibattuta, oggetto di devozione secolare, storicamente documentata per la prima volta alla metà del 1300 nell’attuale regione Grand est della Francia. Gli storici scrivono che il Lenzuolo venne a quel tempo depositato dal prode cavaliere Geoffroy de Charny nella chiesa del suo feudo di Lirey, terminata nel 1353. Nel 1453 Marguerite de Charny (1390-1460), ultima discendente della famiglia, legata alla dinastia sabauda, cede la Sindone al duca Ludovico di Savoia. Dopo vari spostamenti nel 1506 il Lenzuolo trova definitiva collocazione nella Sainte-Chapelle del castello di Chambéry.

    Dopo il trasferimento della capitale del ducato di Savoia da Chambéry a Torino, avvenuta nel 1563, Emanuele Filiberto ordina di portare la Sindone nel capoluogo piemontese, ufficialmente per abbreviare il pellegrinaggio di San Carlo Borromeo. Il Sacro Lino giunge così a Torino il 5 settembre 1578 e conosce varie collocazioni, tra cui la Cappella privata di Palazzo dedicata a San Lorenzo, il Duomo e la chiesa di San Francesco. Nel 1694 viene poi trasferita nella Cappella appositamente progettata dall’architetto modenese Guarino Guarini all’interno dell’attuale Palazzo Reale, in significativa congiunzione con l’abside del Duomo di Torino. La “Reliquia dinastica” resta di proprietà di Casa di Savoia fino 1983, anno della morte di Re Umberto II, il quale per testamento dona la Sindone alla Santa Sede. Oggi la Sindone è conservata nella cappella del transetto sinistro del Duomo di Torino, completamente distesa e in condizioni controllate per garantirne la corretta conservazione.

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  • “Vi amo alla follia. Non c’è momento in cui io non vi adori”.

    È un messaggio scritto in codice dalla regina Maria Antonietta (17551793), solo recentemente decifrato.

    Il destinatario è il conte Hans Axel von Fersen (1755-1810), che le risponde: “Vivo ed esisto solo per amarvi. Adorarvi è la mia sola consolazione”.

    Lei è la regina di Francia, stretta da ragioni dinastiche nella gabbia di un matrimonio politico, lui un nobile svedese, un’anima ardente sotto una corteccia di ghiaccio. Il loro amore clandestino attraversa la storia della Francia in uno dei suoi momenti più drammatici, quelli della rivoluzione. Tutto era iniziato nell’inverno del 1774, quando la futura regina di Francia e Fersen, appena diciottenni, si incontrarono per la prima volta.

    L’occasione, un gran ballo in maschera all’opéra di Parigi. Lei indossava il “domino”, un lungo mantello con cappuccio, una sottile mascherina a coprire gli occhi e la voglia di innamorarsi, come ogni ragazza della sua età. Lo svedese era arrivato in città nell’ambito del Grand Tour, viaggio d’istruzione che facevano tutti i giovani del suo lignaggio. Alto un metro e novanta, i lineamenti regolari, gli occhi azzurri orlati da scure ciglia nere: per le dame di corte divenne presto le beau Fersen, “Fersen il bello”.

    Raramente i matrimoni dinastici sono felici, ma quello celebrato a Versailles il 16 maggio 1770 tra Maria Antonia Giuseppa Giovanna d’Asburgo-lorena, e il delfino di Francia  fu decisamente infausto.  La prima notte di nozze fu un disastro, ma era solo l’inizio: l’unione rimase “bianca” per i primi sette anni. E fu in questo infruttuoso ménage che Fersen divenne il favorito di Maria Antonietta, quello che più spesso e facilmente poteva accedere al suo cospetto. Il 10 maggio 1774 Luigi XV morì di vaiolo e la delfina divenne la nuova regina di Francia, con la responsabilità e la condotta che questo implicava.  Fersen capì che era meglio cambiare aria. Con sollievo dei cortigiani, ingelositi dalla sua rapida ascesa.

    Passarono anni prima che i due si rivedessero: Fersen era diventato un uomo e faceva i primi passi in politica sotto l’ala del suo sovrano, Gustavo III. Maria Antonietta era una giovane regina finalmente incinta. Anche questa volta Fersen non si trattenne a lungo sul suolo francese. Gli americani si battevano per la loro indipendenza dall’Inghilterra e Parigi, nemica naturale di Londra, inviò oltreoceano un contingente ad appoggiare i ribelli. All’inizio del 1779, Fersen si aggregò.

    Al ritorno, re Gustavo lo portò con sé in un lungo giro diplomatico in Europa, fatto di serate danzanti, cene e incontri galanti.  Nell’estate del 1784, Gustavo e Fersen fecero tappa a Versailles: non ci volle molto perché lo svedese e la regina si lasciassero risucchiare da quel parco dei divertimenti per adulti concepito dal Re Sole oltre un secolo prima. Fersen fece di tutto per rimanere in Francia: sapeva che il legame con la regina poteva giovargli. E non si sbagliava: Maria Antonietta convinse il marito a prestargli il denaro necessario per comprare il comando nel Régiment Royal Suédois, formato quasi esclusivamente da svedesi, che gli avrebbe fruttato una generosa rendita annuae.

    I tempi però stavano per cambiare, e con una velocità che prese tutti alla sprovvista.

    La presa della Bastiglia (14 luglio 1789) segnò la fine di un’epoca. “Tutte le menti degli uomini sono in fermento”, scrive Fersen a un amico.

    Molti di questi opuscoli, di simpatie giacobine, avevano come bersaglio la regina. Non era mai stata popolare e, per i tempi superstiziosi in cui viveva, essere nata il 2 novembre, giorno dei morti, non era d’aiuto. La dipingevano come una donna frivola e spendacciona che, incurante delle miserie del popolo, intrecciava amori saffici con le dame di corte; un’austriaca che si era impadronita del trono di Francia, obbedendo alle direttive della madre Maria Teresa, per condurre la nazione alla rovina. Un fondo di verità c’era. Maria Antonietta sperperava cifre favolose a carte e per il guardaroba, e le sue feste a volte duravano giorni.

    L’odio ispirato dai pamphlet si materializzò il 5 ottobre 1789, quando migliaia di donne marciarono da Parigi a Versailles chiedendo pane per i loro figli. I loro slogan erano tutti contro la regina, identificata con i mali del Paese. Fersen intervenne in difesa di Maria Antonietta: con una galoppata precedette il corteo e fece appena in tempo a metterla al sicuro.

    La marcia un risultato lo ottenne: l’indomani il re e la regina furono costretti a trasferirsi a Parigi, alle Tuileries, un palazzo ormai in rovina sulla riva destra della Senna. Per oltre un anno e mezzo il re ingaggiò un braccio di ferro con i suoi avversari, incerto se fare concessioni o chiamare in suo soccorso gli altri monarchi d’europa.

    Scomparsi i fasti e gli adulatori, per Maria Antonietta sarebbero rimaste disperazione e solitudine, se Fersen, non avesse continuato a esserle fedele. Non fu una scelta ovvia, neanche per un aristocratico come lui che poteva in ogni momento essere eliminato come nemico della rivoluzione.

    Solo nella primavera del 1791 Luigi si convinse a tentare la fuga. L’obiettivo era raggiungere una località a est del Paese, dove un comandante militare fedele lo avrebbe atteso con la sua guarnigione. La comitiva doveva apparire come il seguito di una ricca baronessa. Maria Antonietta finse di essere la governante ma il travestimento non funzionò: a Varennes, nelle Argonne, furono riconosciuti e costretti a tornare sotto custodia nella capitale, tra due ali di folla inferocita. Fersen riuscì per miracolo a evitare la cattura e da quel momento cominciò a girare tra le corti europee, facendosi portavoce dei lealisti che speravano di coinvolgere Paesi come l’austria, l’inghilterra o la Prussia nel soffocare l’esperimento rivoluzionario francese. Non se ne fece niente.

    Il 28 giugno Maria Antonietta scrisse all’amato, rassicurandolo: “Non essere turbato sul mio conto, non mi succederà nulla. L’assemblea Nazionale mostrerà clemenza. Addio, uomo amatissimo. Stai calmo se puoi. Abbi cura di te stesso, fallo per me. Non posso più scrivere, ma nulla al mondo potrebbe impedirmi di adorarti fino alla morte”.  Il 16 ottobre 1793, Maria Antonietta fu condotta al patibolo e ghigliottinata.

    Fersen apprese la notizia della morte dell’amata mentre era a Bruxelles, dove ancora cercava una soluzione. “Sebbene fossi preparato per questo e lo aspettassi, fui devastato”, annotò nelle sue memorie.

    Prima del tragico epilogo erano riusciti a vedersi solo un’ultima volta. Lei gli restituì un anello che molto tempo prima lui le aveva donato, gli consegnò un biglietto su cui era scritta una breve frase, in italiano: “Tutto a te mi guida”.

     

    Fonte: Focus Storia

     

  • Pietanze prelibate e una sfarzosa “mise en place” alla tavola del Re Sole, dove sedevano anche migliaia di persone.

    Agli ordini dell’esigente maître una schiera di chef, sous chef, sommelier, rosticcieri e pasticcieri si affannava nelle grandi cucine, dove fuochi e forni erano sempre accesi e le grandi marmitte non smettevano mai di sobbollire. Dalle cantine, le cui chiavi erano gelosamente custodite, uscivano bottiglie di magnifici rossi di Borgogna o di Champagne; dagli orti di palazzo, coltivati con tecniche all’avanguardia, arrivavano canestri di verdura, frutta, erbe aromatiche e funghi; dai boschi reali, cacciagione e deliziosi tartufi. Sui taglieri veniva sezionato ogni genere di animale, dal manzo al castoro, dai crostacei alle tartarughe, passando dagli uccelli le cui giunture venivano recise con cura.

    Alla tavola del Re Sole ogni giorno si accomodavano migliaia di nobili con il loro seguito: il sovrano infatti aveva preteso che il suo entourage lasciasse Parigi per seguirlo nella dorata gabbia di Versailles. Si mangiava tutti insieme, come alla mensa di una grande azienda, solo che tutto doveva essere superlativo, perché il cibo rappresentava la generosità del re. Ma per nutrire un simile esercito, ce ne voleva un altro che lavorasse tra i fumi delle cucine.

    TABLEAU ROYAL.

    Un banchetto reale, nelle grandi occasioni, prevedeva non meno di quattro o cinque portate. Immensi vassoi viaggiavano veloci dalle cucine alle sale imbandite, carichi di pietanze ricercate, dall’aspetto magnifico, protette da campane d’argento, pronti ad atterrare sulle tavole con precisione e simultaneità. Tutto arrivava a ondate per trasmettere la sensazione di ricchezza e abbondanza: antipasti, arrosti, stufati, cacciagione, erano intervallati da entremets (portate intermedie, “leggere”, servite tra una pietanza e l’altra) come lingue di cervo, piedini di maiale cotti nel brodo, o morbide tettine di vacca. Le spezie, invece, un tempo ritenute merce pregiata, caddero in disuso quando, nel Seicento, i veneziani persero il monopolio del commercio con l’oriente, causando la caduta dei prezzi e trasformando gli aromi da cucina in prodotti ordinari.

    BUONE MANIERE.

    I cortigiani del Re Sole amavano ascoltare la musica a tavola; in mancanza di musici, apprezzavano anche cantanti, a cui spesso i commensali si univano al ritornello, incuranti del cibo che avevano in bocca.

    Per bere bastava fare un segno al cameriere personale. Una volta vuotato, il bicchiere veniva sciacquato in un bacile, e poco importava se durante il pranzo i recipienti si scambiavano. Il concetto di igiene era molto diverso dal nostro. L’uso delle posate era a discrezione dei commensali, perciò era facile vedere un compìto marchese pulirsi le dita sporche di grasso nella tovaglia dopo aver mangiato con le mani, o una bella contessa sputare nella mano un boccone sgradito e gettarlo sotto il tavolo per gli alani. Manuali di etichetta destinati all’aristocrazia cominciavano a circolare proprio in quest’epoca, ma in pochi li leggevano. Del resto anche il Re Sole preferiva usare le mani per mangiare. Per lui, che naturalmente era il primo a essere servito, venivano portate pietanze per otto. Ovviamente il sovrano non mangiava tutto, assaggiava qua e là, ma ostentava un appetito formidabile.

    Questo, infatti, era considerato segno di buona salute e quindi della capacità di proteggere i sudditi, mentre l’abbondanza e la varietà dei cibi era la prova della potenza della Francia. “Ho spesso visto il re”, annotava la cognata, la principessa Palatina, “mangiare quattro piatti di potage, un fagiano intero, una pernice, un gran piatto di insalata, due grandi fette di prosciutto, del montone all’aglio, un piatto di dolci, e ancora frutta e uova sode”.

    «In quest’epoca», racconta Francesca Sgorbati Bosi in A tavola coi re, «al sovrano spettava il compito di dare prova di straordinaria virilità, sia mentre mangiava sia mentre era a letto, dove si dimostrava altrettanto “onnivoro”: solo che in camera sfilavano favorite e cortigiane, qui piatti molto conditi e innaffiati da champagne». Il banchetto cominciava con un ricco potage, termine che oggi significa zuppa, ma che a Versailles era un piatto complesso, come per esempio un cappone alle ostriche. Per sua Maestà e i commensali svolgeva la funzione di aprire lo stomaco (possiamo immaginare quanto dilatato) mentre venivano servite le prime entrées, che tradurre “antipasti” sarebbe riduttivo: lucci fritti in salsa d’acciughe e maialini al latte guarniti con melagrane, fette di limoni e fiori edibili.

    LA GRANDEUR.

    Quello di Luigi XIV era il primo grande esperimento di Stato nazionale, incarnato da un sovrano assoluto, che non rispondeva a nessuno, se non a se stesso. Il suo potere non derivava solo dalla forza degli eserciti, ma, come nelle grandi corti rinascimentali, anche dalla cultura e dall’arte che, sovvenzionate dalla Corona, convinsero i francesi di essere la più grande nazione al mondo, e di conseguenza anche le altre potenze lo considerarono un dato di fatto.

    Nella seconda metà del Seicento, al culmine del suo regno, tutta l’europa era influenzata dalla cultura e dalla moda francesi. Ovunque le donne aristocratiche si vestivano e si truccavano come a Parigi, e il francese era la lingua parlata da diplomatici e uomini d’affari. E se c’era una cucina invidiata, dappertutto, era senza dubbio quella di Versailles.

    Questo nuovo modo di alimentarsi cancellava di colpo abitudini e regole salutistiche che le élite avevano seguito per secoli, se non per millenni. Fino a quel momento, a dettare legge erano ancora i precetti alimentari di Galeno, padre della medicina, vissuto nell’asia Minore grecizzata del II secolo d.c. A dire di Galeno, l’uomo, come del resto il cosmo, era composto da quattro elementi principali (acqua, aria, terra e fuoco) e, se voleva stare in salute, doveva assumere cibi adatti a mantenerli in equilibrio tra loro.

    Nel Seicento cambiò tutto: le élite non mangiavano i cibi ritenuti salutari, ma esclusivamente quello che il sovrano trovava di suo gusto. Entrarono così in cucina i funghi fino a quel momento disprezzati, dato che proliferano nel letame, perché Luigi ne andava matto, come i piselli e i meloni, che diventarono di gran moda. Fare del mangiare un’esperienza estetica si trasformò in una dimostrazione di status. I cuochi iniziarono a essere considerati artisti. Anche se non erano ancora delle star, come oggi, i migliori erano ricercati e ben pagati.

    PECCATO DI GOLA.

    La rottura con il passato non infrangeva solo prescrizioni mediche millenarie, ma anche di natura religiosa. Mangiare oltre lo stretto necessario un tempo significava commettere peccato, ora invece diventò sintomo di buon gusto, lo stesso con cui si ammirava un quadro. Lo scrittore Charles de Saint-évremond scriveva a un’amica letterata: “A 88 anni mangio ostriche tutte le mattine, pranzo bene e mangio abbondantemente. Quando ero giovane ammiravo solo l’intelligenza, dando al corpo meno importanza di quanto si deve; oggi rimedio a questo errore”.

    Questo non significava che il cattolicesimo, di cui il Re Sole si proclamava massimo difensore, avesse perso il suo peso. Anzi, tra i venerdì, la settimana santa, l’avvento, la Quaresima, i giorni di processione, e i digiuni che i confessori erogavano come penitenza, nella Francia del Seicento si contavano da 100 a 150 giorni all’anno in cui si doveva mangiare di magro.ovviamente parliamo dell’aristocrazia, per il popolo ogni giorno era di magro. I sacerdoti erano indulgenti con i ricchi, a corte era considerato accettabile servire ostriche e aragoste nei giorni di magro, in fondo non erano molto diverse dai pesci che Gesù aveva moltiplicato.

    Alla lunga questa dieta sconsideratamente ipercalorica e proteica segnò la salute di tutti, il re per primo. A quarant’anni, a causa della passione per i dolciumi, Luigi non aveva quasi più denti in bocca, e dai documenti di corte si desume che, invecchiando, fosse tormentato dal diabete e dalla gotta, malattia che i dottori curavano con inutili salassi e clisteri, e che lo condusse alla morte.

    Questo fu l’inevitabile epilogo. Prima però la Francia fece in tempo a fare di cultura, buona tavola e eros i tre valori fondanti della sua identità nazionale.

    Fonte: Focus Storia

  • Non credo nelle favole.
    Ma amo leggerle, e mi piace scriverle.
    Non credo nel destino.
    Ma lo so affrontare.
    Il dolore, la paura, la guerra, la mafia, il terremoto, la malattia, la morte: esistono.
    Non serve a nulla guardare dall’altra parte, fingere di non vedere.
    Ma si può usare un altro punto di vista, che ha il potere di cambiare tutto.
    Io l’ho imparato, l’ho capito, l’ho vissuto.
    Si può sorridere, ad esempio. E anche ridere.
    Si può stringersi gli uni con gli altri.
    Si può parlare, scrivere.
    C’è una parola per questo, difficile e importante, che significa non arrendersi, non tirarsi mai indietro. Non lasciare la partita.
    Resistere agli urti della vita senza spezzarsi.
    Andare avanti a testa alta, sempre avanti. In ogni caso.
    Questa parola è resilienza.
    È una parola che merita attenzione.
    Che va raccontata, spiegata, diffusa.
    Che voglio portare nel mondo, in tutti i modi che conosco e che mi verranno in mente.
    E che ci verranno in mente, perché io ho bisogno di una mano, da tutti voi.
    Possiamo fare tanto di buono insieme. Solo se insieme.
    Perché io non sono Francesca Del Rosso, non sono Wondy.

    Ma Wondy sono io.

    L’Associazione Wondy sono io, in collaborazione con la Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro, organizza una mostra fotografica in omaggio alla scrittrice e giornalista Francesca Del Rosso, che ha raccontato con sorriso e ironia la sua battaglia contro il cancro.

    Dal 14 al 29 aprile, al Castello di Racconigi, l’esposizione racconta l’amore per i viaggi e per la cultura e la battaglia contro la malattia della protagonista.

    Le tavole testimoniano lo stato di avanzamento del tumore e le reazioni di Wondy, così come sono raccontate anche nel best-seller autobiografico ‘Wondy ovvero come si diventa supereroi per guarire il cancro’ (Rizzoli 2014).

    Fondata dal marito di Francesca, Alessandro Milan, giornalista di Radio 24, l’Associazione Wondy sono Io promuove la “cultura della resilienza” legata alla malattia e al dolore, ma anche ad altri fenomeni grandi e universali (come la lotta alle mafie e alle guerre) o più attinenti al campo personale.

    Fonte: Wondy sono io

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