Categoria: Lo sapevi…

  • Come i libri gialli, che si chiamano così in Italia per il colore che aveva la prima collana Mondadori dedicata al genere polizesco, anche i romanzi sentimentali (romance, romantici, in inglese) presero il nome di romanzi rosa per l’aspetto che avevano all’origine.

    Negli Anni Trenta, l’editore Salani ristampò infatti una sua celebre collana, La Biblioteca delle Signorine, in una versione più moderna e riconoscibile.

    Presto i titoli della collana, dai risvolti romantici e pubblicati con grande successo, vennero chiamati I romanzi della rosa, dal logo d’oro a forma di fiore che capeggiava sulla tela rosa acceso delle copertine.

    Da allora, tutti noi con romanzi rosa intendiamo libri romantici che hanno una storia d’amore come motore della narrazione.

    In occasione di San Valentino, festa degli innamorati, ecco una piccola lista di libri romantici freschi di stampa, che raccontano storie d’amore speciali, capaci di portare lontano e di farci sognare.


  • Il mondo dell’archeologia è in fibrillazione per le dichiarazione del più importante egittologo del mondo, Zahi Hawass, il quale avrebbe trovato la tomba di Cleopatra e sarebbe sulle tracce di quella di Marco Antonio.

    Trovata la tomba di Cleopatra

    Il fascino e il mistero degli antichi Egizi continua ad appassionare. Zahi Hawass, archeologo ed egittologo, durante una conferenza presso l’Univerisità di Palermo ha dichiarato di aver scoperto dove si trova Cleopatra, l’ultima regina d’Egitto. La sua tomba si troverebbe a Taposiris Magna (Abusir), a circa 50 chilometri da Alessandria e lì la regina sarebbe sepolta vicino al suo amato Marco Antonio, l’uomo con cui condivise il declino del regno tolemaico e il passaggio dell’Egitto sotto la Roma imperiale di Ottaviano. Secondo Hawass i fedelissimi di Cleopatra ne avrebbero occultato il corpo mummificato, seppellendolo con in un luogo sacro e sicuro e, ponendola vicino al politico e militare romano, avrebbero voluto unire simbolicamente un comune destino di morte e di amore. Come riporta Il Messaggero, la tomba della regina sarebbe a un passo dall’essere riportata alla luce, mentre per quanto riguarda quella dell’amato, Hawass ha dichiarato: “Sono molto vicino: penso davvero di averla individuata, sono sulla buona strada, ho grandi speranze di trovarla presto”.

    La scoperta

    Grazie all’utilizzo di strumenti tecnologici molto avanzati, gli studiosi sono riusciti a individuare a Giza un sito dove si troverebbero 27 tombe. Inoltre, l’impiego di robot ha consentito di individuare stanze segrete e di mappare i corridoi sotterranei. Durante la conferenza a Palermo, Zahi Hawass ha spiegato la sua convinzione circa il ritrovamento della tomba di Cleopatra: “Il luogo individuato ci ha restituito nel corso delle indagini molti elementi riconducibili senza dubbio alla figura storica di Cleopatra. Per questo, sappiamo ora dove andare esattamente a scavare”. Infatti sono stati scoperti dei cartigli con riferimenti proprio al nome di Cleopatra. Lo scavo non sarà un’operazione facile, anche a causa delle acque del vicino lago che hanno allagato gli ambienti ipogei rendendoli inaccessibili. Quindi la prima cosa da fare è liberare gli ambienti dall’acqua per poi proseguire con lo scavo. La speranza di Hawass è quella di trovare Cleopatra e il suo amato Marco Antonio sepolti insieme.

  • La sera dell’8 dicembre 2018, i musei festeggiano l’inizio del periodo natalizio con aperture straordinarie e visite guidate.

    Alcuni musei torinesi chiuderanno un po’ più tardi nella serata di sabato 8 dicembre per permettere ai torinesi e ai turisti in visita in città per l’Immacolata 2018 di scoprire il patrimonio artistico e le mostre attualmente in corso.

    APERTURA STRAORDINARIA FINO ALLE ORE 21.00

    MUSEO EGIZIO
    via Accademia delle Scienze 6
    Ore 18.30 visita guidata Magia e Prodigi nell’antico Egitto (Prezzo al pubblico: € 5 – Prenotazione obbligatoria: 011 4406903 – info@museitorino.it)

    APERTURA STRAORDINARIA FINO ALLE ORE 23.00

    GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea
    via Magenta 31
    Mostra I Macchiaioli. Arte Italiana verso la modernità

    Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica
    piazza Castello

    MAO – Museo d’Arte Orientale
    via San Domenico 11

    Basilica di Superga
    strada della Basilica di Superga 75
    Visita guidata gratuita alla Cupola della Basilica, alle Tombe e gli Appartamenti di Casa Savoia

    Museo Nazionale del Cinema
    via Montebello 22
    Speciale ingresso € 5

    Sala Chiablese dei Musei Reali di Torino
    piazzetta Reale 1
    Mostra Tutti gli “ismi” di Armando Testa

    Basilica di Superga
    Strada Basilica di Superga 73

     

  • “Vi amo alla follia. Non c’è momento in cui io non vi adori”.

    È un messaggio scritto in codice dalla regina Maria Antonietta (17551793), solo recentemente decifrato.

    Il destinatario è il conte Hans Axel von Fersen (1755-1810), che le risponde: “Vivo ed esisto solo per amarvi. Adorarvi è la mia sola consolazione”.

    Lei è la regina di Francia, stretta da ragioni dinastiche nella gabbia di un matrimonio politico, lui un nobile svedese, un’anima ardente sotto una corteccia di ghiaccio. Il loro amore clandestino attraversa la storia della Francia in uno dei suoi momenti più drammatici, quelli della rivoluzione. Tutto era iniziato nell’inverno del 1774, quando la futura regina di Francia e Fersen, appena diciottenni, si incontrarono per la prima volta.

    L’occasione, un gran ballo in maschera all’opéra di Parigi. Lei indossava il “domino”, un lungo mantello con cappuccio, una sottile mascherina a coprire gli occhi e la voglia di innamorarsi, come ogni ragazza della sua età. Lo svedese era arrivato in città nell’ambito del Grand Tour, viaggio d’istruzione che facevano tutti i giovani del suo lignaggio. Alto un metro e novanta, i lineamenti regolari, gli occhi azzurri orlati da scure ciglia nere: per le dame di corte divenne presto le beau Fersen, “Fersen il bello”.

    Raramente i matrimoni dinastici sono felici, ma quello celebrato a Versailles il 16 maggio 1770 tra Maria Antonia Giuseppa Giovanna d’Asburgo-lorena, e il delfino di Francia  fu decisamente infausto.  La prima notte di nozze fu un disastro, ma era solo l’inizio: l’unione rimase “bianca” per i primi sette anni. E fu in questo infruttuoso ménage che Fersen divenne il favorito di Maria Antonietta, quello che più spesso e facilmente poteva accedere al suo cospetto. Il 10 maggio 1774 Luigi XV morì di vaiolo e la delfina divenne la nuova regina di Francia, con la responsabilità e la condotta che questo implicava.  Fersen capì che era meglio cambiare aria. Con sollievo dei cortigiani, ingelositi dalla sua rapida ascesa.

    Passarono anni prima che i due si rivedessero: Fersen era diventato un uomo e faceva i primi passi in politica sotto l’ala del suo sovrano, Gustavo III. Maria Antonietta era una giovane regina finalmente incinta. Anche questa volta Fersen non si trattenne a lungo sul suolo francese. Gli americani si battevano per la loro indipendenza dall’Inghilterra e Parigi, nemica naturale di Londra, inviò oltreoceano un contingente ad appoggiare i ribelli. All’inizio del 1779, Fersen si aggregò.

    Al ritorno, re Gustavo lo portò con sé in un lungo giro diplomatico in Europa, fatto di serate danzanti, cene e incontri galanti.  Nell’estate del 1784, Gustavo e Fersen fecero tappa a Versailles: non ci volle molto perché lo svedese e la regina si lasciassero risucchiare da quel parco dei divertimenti per adulti concepito dal Re Sole oltre un secolo prima. Fersen fece di tutto per rimanere in Francia: sapeva che il legame con la regina poteva giovargli. E non si sbagliava: Maria Antonietta convinse il marito a prestargli il denaro necessario per comprare il comando nel Régiment Royal Suédois, formato quasi esclusivamente da svedesi, che gli avrebbe fruttato una generosa rendita annuae.

    I tempi però stavano per cambiare, e con una velocità che prese tutti alla sprovvista.

    La presa della Bastiglia (14 luglio 1789) segnò la fine di un’epoca. “Tutte le menti degli uomini sono in fermento”, scrive Fersen a un amico.

    Molti di questi opuscoli, di simpatie giacobine, avevano come bersaglio la regina. Non era mai stata popolare e, per i tempi superstiziosi in cui viveva, essere nata il 2 novembre, giorno dei morti, non era d’aiuto. La dipingevano come una donna frivola e spendacciona che, incurante delle miserie del popolo, intrecciava amori saffici con le dame di corte; un’austriaca che si era impadronita del trono di Francia, obbedendo alle direttive della madre Maria Teresa, per condurre la nazione alla rovina. Un fondo di verità c’era. Maria Antonietta sperperava cifre favolose a carte e per il guardaroba, e le sue feste a volte duravano giorni.

    L’odio ispirato dai pamphlet si materializzò il 5 ottobre 1789, quando migliaia di donne marciarono da Parigi a Versailles chiedendo pane per i loro figli. I loro slogan erano tutti contro la regina, identificata con i mali del Paese. Fersen intervenne in difesa di Maria Antonietta: con una galoppata precedette il corteo e fece appena in tempo a metterla al sicuro.

    La marcia un risultato lo ottenne: l’indomani il re e la regina furono costretti a trasferirsi a Parigi, alle Tuileries, un palazzo ormai in rovina sulla riva destra della Senna. Per oltre un anno e mezzo il re ingaggiò un braccio di ferro con i suoi avversari, incerto se fare concessioni o chiamare in suo soccorso gli altri monarchi d’europa.

    Scomparsi i fasti e gli adulatori, per Maria Antonietta sarebbero rimaste disperazione e solitudine, se Fersen, non avesse continuato a esserle fedele. Non fu una scelta ovvia, neanche per un aristocratico come lui che poteva in ogni momento essere eliminato come nemico della rivoluzione.

    Solo nella primavera del 1791 Luigi si convinse a tentare la fuga. L’obiettivo era raggiungere una località a est del Paese, dove un comandante militare fedele lo avrebbe atteso con la sua guarnigione. La comitiva doveva apparire come il seguito di una ricca baronessa. Maria Antonietta finse di essere la governante ma il travestimento non funzionò: a Varennes, nelle Argonne, furono riconosciuti e costretti a tornare sotto custodia nella capitale, tra due ali di folla inferocita. Fersen riuscì per miracolo a evitare la cattura e da quel momento cominciò a girare tra le corti europee, facendosi portavoce dei lealisti che speravano di coinvolgere Paesi come l’austria, l’inghilterra o la Prussia nel soffocare l’esperimento rivoluzionario francese. Non se ne fece niente.

    Il 28 giugno Maria Antonietta scrisse all’amato, rassicurandolo: “Non essere turbato sul mio conto, non mi succederà nulla. L’assemblea Nazionale mostrerà clemenza. Addio, uomo amatissimo. Stai calmo se puoi. Abbi cura di te stesso, fallo per me. Non posso più scrivere, ma nulla al mondo potrebbe impedirmi di adorarti fino alla morte”.  Il 16 ottobre 1793, Maria Antonietta fu condotta al patibolo e ghigliottinata.

    Fersen apprese la notizia della morte dell’amata mentre era a Bruxelles, dove ancora cercava una soluzione. “Sebbene fossi preparato per questo e lo aspettassi, fui devastato”, annotò nelle sue memorie.

    Prima del tragico epilogo erano riusciti a vedersi solo un’ultima volta. Lei gli restituì un anello che molto tempo prima lui le aveva donato, gli consegnò un biglietto su cui era scritta una breve frase, in italiano: “Tutto a te mi guida”.

     

    Fonte: Focus Storia

     

  • Mi fa piacere oggi, raccontare una realtà nata e cresciuta a Chieri che ha come obbiettivo la promozione in tutte le sue varibili del territorio da Chieri e dintorni fino a Torino.

    Theatrum Sabaudia è un insieme di persone, interessi, passione per l’arte e per il nostro territorio, incontri e nuove esperienze.

    E’ diventato con il tempo anche un lavoro, ma il filo conduttore rimane il grande amore per quello che facciamo.

    Dal 1999 di strada ne è stata fatta tanta, molta la fatica e ancora di più le difficoltà, superate anche grazie al rapporto speciale di amicizia e rispetto che lega i 3 soci fondatori ed ogni nuovo socio aggiunto.

    Da allora Theatrum Sabaudiae ha subito diverse trasformazioni, è diventata una realtà lavorativa per molti professionisti e oggi è in grado di modulare i propri servizi sulla base delle esigenze del mercato, mantenendo sempre elevati standard qualitativi grazie all’apporto di qualificati collaboratori.

    Ma perché Theatrum Sabaudiae? Da dove nasce questo nome?  Il Theatrum statuum regiae celsitudinis Sabaudiae ducis, Pedemontii principis, Cypri regis., per comodità abbreviato in Theatrum Sabaudiae, è una pubblicazione in due volumi, edita nel 1682 dallo stabilimento Bleau di Amsterdam e raccoglie 145 tavole di altrettante città e luoghi del Ducato Sabaudo.

    I volumi furono donati a regnanti e personaggi di rilievo dell’epoca, in un contesto di affermazione di potenza da parte di Carlo Emanuele II e, alla sua morte, dalla consorte Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours.

    Oggi se ne conservano alcune copie del centinaio stampato in origine, quattro delle quali in Italia, di cui due di proprietà della Regione Piemonte. Alla fondazione della cooperativa fu chiaro sin da subito che un nome così “importante” sarebbe stato un forte richiamo alla nostra tradizione storico – culturale.

    Per maggiori info

  • Siete curiosi di vedere quanto sia cambiata Torino negli ultimi 50 anni?

    La trama del film è conosciuta, se invece non la conoscete è un’occasione per vedere un vecchio e leggero film. Sia chiaro nulla a che vedere con il remake girato a Venezia nel 2003 con Charlize Theron

    I tre protagonisti del film a bordo di tre Mini Cooper corrono nei meno probabili angoli e vicoli della nostra città,  permettendoci di tornare alla Torino della fine degli anni 60.

    I portici di via Roma, la Chiesa della Gran Madre, la Stazione di Porta Nuova, la pista parabolica  del Lingotto ed  il tetto del Palazzo del Lavoro  sono solo alcuni dei luoghi  in cui è ambientato il film.

    Posti rimasti  quasi del tutto identici ad allora: la città negli ultimi 40 anni,  non è cambiata poi cosi tanto., non fosse per Piazza Castello ancora aperta al traffico, la presenza di numerosi dehors sotto i portici di via Roma o i diversi locali siti ai Murazzi.

    Il regista Peter Collinson scelse di girare proprio a Torino, perché già alla fine degli anni ’60, allora prima tra le metropoli europee,  disponeva veramente” di un centro di controllo computerizzato del traffico: un meccanismo che consentiva di disporre la cosiddetta onda verde tra i semafori.

  • Un nome che ha fatto sognare generazioni di viaggiatori e stuzzicato la fantasia di romanzieri, da Agatha Christie con Assassinio sull’Orient Express a Ian Fleming con 007, dalla Russia con amore. Ma è anche un nome che evoca storie di vere spie, intrighi e mistero.

    La grande avventura iniziò il 4 ottobre 1883, quando, tra nuvole di vapore e fischio inaugurale, il treno lasciò solennemente la Gare de l’est di Parigi diretto a Istanbul.  Nella folla elegante che assisteva alla partenza non mancavano gli scettici, convinti che “andare da Parigi a Costantinopoli fosse insensato come pensare di andare sulla Luna”, scrisse nel suo articolo sul Figaro il giornalista Edmond About. Insieme ad altri scrittori e personalità, faceva parte dei 40 invitati saliti a bordo per il viaggio di inaugurazione. Tutti erano elettrizzati per questa nuova esperienza e la raccomandazione di portare con sé un revolver non faceva che aggiungere suspense. L’Express de l’Orient, ribattezzato Orient Express nel 1891, era un vero gioiello di tecnica e di eleganza. A cominciare dalle carrozze, tutte in teak verniciato e scintillante, riscaldate a vapore e illuminate a gas. Il wagon-lit era dotato di cuccette che di giorno si trasformavano in comodi divani: una novità per i tempi. E tutto era curato nei minimi particolari. Le lenzuola, lievemente profumate, venivano “cambiate tutti i giorni, una raffinatezza sconosciuta nelle case più ricche”, annotava About. Il convoglio comprendeva anche una sala biblioteca, dove si poteva fumare, un salottino per le signore e un office per chi voleva scrivere o lavorare in tranquillità. Nella carrozza-ristorante uno chef “stellato” cucinava cibi raffinati. Tutto veniva servito in piatti di porcellana con posate d’argento e accompagnato da vini eccellenti. Ma con gli scossoni del treno il vino non rischiava di traboccare dal bicchiere? Tranquilli, l’ingegnere ferroviario Delaitre aveva già verificato personalmente. Grazie alle nuove ed efficienti sospensioni neppure una goccia di liquido poteva cadere dal bicchiere pieno fino all’orlo. L’express de l’Orient percorse il tratto Parigi-istanbul in quattro giorni, che si ridussero a tre quando, nel 1889, il percorso fu ottimizzato. Il treno attraversò la Baviera di Luigi II, l’austria-ungheria di Francesco-Giuseppe, la Serbia di Alessandro I, la Romania di Carlo I, la Bulgaria di Ferdinando I e la Turchia di AbdulHamid II. 

    IL PROGETTO. Ma chi fu l’artefice di questo gioiello su rotaie?

    Un giovane ingegnere belga, Georges Nagelmackers (1845-1905), rampollo di una famiglia di banchieri. Durante un viaggio negli Stati Uniti salì sui vagoni-letto di George Mortimer Pullman, dove si poteva dormire, ma senza vera privacy. Ne rimase colpito e, tornato a casa, fondò la Compagnie internationale des Wagons-lits per offrire treni di sola prima classe, lussuosi e confortevoli, per la clientela europea più agiata.  Fece centro. Il successo fu tale che tra il 1883 Ispirò libri e scene di film. Da Agatha Christie a Ian Fleming a Hitchcock e il 1940 la rete ferroviaria contava 29 linee che collegavano Londra con Parigi e Istanbul, Atene, Damasco,teheran. Ma anche Madrid, Lisbona, Roma, Nizza e le località sciistiche in voga nelle Alpi (Lech, Innsbruck…).

    ORIENTALISMO. L’orient Express contribuì ad alimentare la moda dell’esotico, di un Oriente sognato e misterioso, decadente e raffinato. Un fenomeno nato nel Settecento e che si intensificò nell’ottocento.  Pittori e scrittori come Ingres, Delacroix, Hugo e Byron rimasero stregati dal fascino di Costantinopoli, la città dalle trecento moschee, l’antica Bisanzio, il cui panorama era così “sorprendentemente bello da dubitare della sua realtà”, scrisse il poeta francese Théophile Gautier nel 1853. Ma era soprattutto il nome dello scrittore Pierre Loti a essere indissolubilmente legato a Costantinopoli, dopo il successo del romanzo Aziyadé del 1879. La sua era una voce fuori dal coro. Odiava “questi ricchi sfaccendati che l’orient Express scarica nelle strade, intrusi che profanano questo caro suolo, senza avere l’ammirazione e il rispetto che la vecchia Stambul ( come la chiamava lui) ancora richiede”. Per Pierre Loti l’orient Express era sinonimo di turismo di massa, superficiale e distratto.

    ARISTROCRAZIA IN VIAGGIO. Il mondo elegante e cosmopolita della Belle Époque fece invece dell’orient Express il suo simbolo. Carlo II di Romania, il Sultano Abdul-hamid II e il re Leopoldo II del Belgio, spesso accompagnato dall’amante Cléo de Mérode, furono tra i primi a salire a bordo. E in un solo giorno, nel 1902, ci fu il pienone di aristocratici: il granduca imperiale Vladimiro di Russia, Alberto di Prussia, il principe Cristiano di Danimarca, il principe di Monaco e il conte von Moltke. Da allora l’orient Express si meritò il soprannome di “re dei treni e treno dei re”.  Ma a bordo si potevano incontrare anche personaggi discutibili, come Basil Zaharoff, potentissimo trafficante di armi ai tempi della Prima guerra mondiale. Sull’orient Express, nel 1886, giocava il ruolo del seduttore: fu lì infatti che conobbe l’affascinante diciassettenne Maria del Pilar, duchessa di Villafranca de Los Caballeros, che più tardi sposò. Un altro personaggio fuori dal comune fu l’armeno Calouste Gulbenkian, che nel luglio 1896 salì sul treno per sfuggire al massacro dei suoi compatrioti, portando con sé, avvolto in un tappeto, il figlio Nubar. Gulbenkian divenne in seguito ricchissimo nel business del petrolio. Per tutti era il “Signor Cinque per cento”, perché questa era la percentuale di quote che pretendeva dalle compagnie petrolifere che contribuiva a sviluppare. Nel 1915 salì sul mitico treno anche Cosima, figlia di Franz Listz e vedova di Richard Wagner. Un compagno di viaggio, Ferdinand Bach, la ricorda con il volto nascosto dai veli, che imponeva “rispetto, ricevendo gli omaggi dei fanatici del geniale maestro”. Ma l’Orient Express fu utilizzato anche da spie e agenti segreti. Lawrence d’Arabia, colonnello britannico e agente segreto (Thomas Edward Lawrence era il suo vero nome), negli anni della Prima guerra mondiale diventò uno dei capi della rivolta araba contro la dominazione turca, nel 1909, ancora studente, fece il suo primo viaggio verso questa terra lontana a bordo dell’Orient Express, e vi tornò molte volte.  Nel 1910 salì sul celebre treno anche la ballerina Mata Hari, ingaggiata poi come spia dai tedeschi e fucilata nel 1917. Robert Baden-Powell, che lavorava per i Servizi segreti britannici (ma oggi è noto soprattutto come fondatore del Movimento Scout) viaggiò spesso sull’orient Express, fingendosi un collezionista di farfalle, sulle cui ali disegnava la mappa miniaturizzata delle fortificazioni nemiche e il posizionamento dei cannoni.  Più avanti sarà la volta di Kim Philby, Richard Sorge, Naum Ejtingon, Ramón Mercader: tutti celebri 007 al servizio del Cremlino.

    TRA LE DUE GUERRE. Alla fine della Grande Guerra l’orient Express non esisteva più. I vagoni, requisiti a scopo bellico, erano danneggiati o distrutti. Così la Compagnie internationale des Wagons-lits li sostituì con altri ancora più lussuosi, verniciati di blu con filetti d’oro. E tutti in metallo, per eliminare i rumori delle carrozze in teak. Le pareti interne erano rivestite di lacche, intagli di legni rari e pannelli di vetro realizzati dal famoso René Lalique. Anche la clientela era cambiata. Le donne ora avevano acconciature e vestiti corti e profonde scollature; gli uomini portavano i capelli lisci e impomatati. L’orient Express, tornato in auge, era il simbolo della voglia di vivere degli anni Venti. Ma la guerra aveva lasciato il suo strascico e spesso si incontravano russi bianchi cacciati dalla Rivoluzione d’ottobre o inglesi, americani e francesi scossi dallo spettacolo dell’europa distrutta.

    Nel marzo 1929 anche Trotskij, esiliato da Stalin, salì sull’orient Express a Parigi diretto a Istanbul. Marlene Dietrich lo prendeva abitualmente e Agatha Christie vi incontrò il marito archeologo.  Ma nel 1931 una tragedia si abbatté sul “treno dei re”: dei terroristi fecero saltare il viadotto di Biatorbágy, in Ungheria, proprio al passaggio del convoglio. Alcuni vagoni caddero nel vuoto, provocando una ventina di morti Durante la Prima guerra mondiale il treno fu requisito a scopo bellico. E i vagoni finirono distrutti 1929 Il treno fu bloccato dalla neve a 130 km da Istanbul per 4 giorni. Nei vagoni: -10 gradi e un centinaio di feriti. In viaggio su quel treno c’era la soubrette Josephine Baker: aiutò i feriti e cantò per loro.

    L’ULTIMA FERMATA. Dopo la Seconda guerra mondiale nulla fu più come prima. La cortina di ferro che divise l’europa dell’est da quella dell’ovest mise in difficoltà la circolazione dei treni, obbligati a estenuanti controlli. E i viaggiatori preferirono la velocità dell’aereo. La compagnia non solo perse l’etichetta di lusso nel 1948, ma fu costretta a vendere i suoi vagoni uno dopo l’altro. Venne anche aggiunta la seconda classe, nel tentativo di attirare nuovi passeggeri. Dagli anni Sessanta in poi la decadenza fu sempre più evidente e il 19 maggio 1977 il glorioso “treno dei re”, diventato “democratico”, effettuò il suo ultimo viaggio, con lo stesso percorso che lo rese famoso, il Parigi-istanbul.

    Fonte: Focus Storia

  • Dalla tavola dei Savoia ai giorni nostri.

    DE’  CARDI ovvero…  LA  BAGNA-CAÔDA

    Si  servono  anche  così  crudi,  dopo  di  esser  ben  mondati,  si  fa  bollire  dell’olio,  e  sale,  e si  stempra  dentro  delle  acciughe,  ed  in  questa  salsa  calda  si  bagna  il  Cardo.

    Il  cuoco  piemontese  perfezionato  a  Parigi,  1775,  pp.  276-7)

    Se  oggi  si  pensa  alla  cucina  piemontese,  la  bagna-caôda  è  uno  dei  primi  piatti  a  venire  in  mente.  In  realtà,  nei  ricettari  della  Biblioteca  Reale  non  compare  nessuna  preparazione  con  questo  nome,  ma  in  quattro  testi  si  scorge  la  nostra  bagna-caôda,  sebbene  con  una  sorpresa:  nelle  ricette  sette  e  ottocentesche  mancava  del  tutto  l’aglio,  oggi  ritenuto  indispensabile  e  caratterizzante.  Nell’Ottocento  agli  ingredienti  di  base  –olio,  sale  e  acciughe  –viene  aggiunto  il  tartufo  e  si  può  ipotizzare  che  la  sua  successiva  sostituzione  con  l’aglio  sia  stato  un  adattamento  del  piatto  alle  tavole  delle  classi  meno  abbienti.

     

    AGNELLOTTI  ALL’ITALIANA  ovvero…  GLI  AGNOLOTTI

    Fate  la  pasta  con  farina,  bianchi  d’uova,  sale,  ed  acqua  tepida  […]:  se in  magro,  farete  una  farsa  di  spinacci  imbianchiti  al  butiro,  con  della  crema,  mollica  di  pane,  formaggio  grattugiato,  e  uova  […],  indi  mettete  questa  farsa  sopra  la  pasta  ben  distesa,  rivoltandola  disopra,  poi  tagliatela  collo  sperone,  indi  avrete  dell’acqua  bollente,  in  essa  i  metterete  alquanto  di  sale,  e  poi  gli  agnellotti  […];  indi  cavateli  colla  schiumora,  e  accomodateli  nel  suo  piatto,  un  suolo  di  agnellotti,  ed  altro  di  formaggio  grattugiato,  butiro,  ed  alquanto  di  pepe  […].  Ne  farete  in  grassonella  stessa  maniera,  con  formaggio,  grasso  di  polpa  di  vitello,  e  cotti  nel  buon  brodo,  sempre  di  formaggio  grattugiato  nella  farsa.

    (La  cuciniera  piemontese,  1821,  pp.  8-9)

    Gli  agnolotti  sono  oggi  considerati  un  tradizionale  piatto  piemontese,  ma  i  ricettari della  Biblioteca  li  documentano  solo  sporadicamente  e  per  lo  più  serviti  in  brodo,  come nella  Cuoca  di  buon  gusto  (1800  circa),  dove  hanno“forma  quasi  di  corona”,  sono  ripieni  di  midollo  di  bue  (o  grasso  di  rognone),  carne  di  pollo,  formaggio,  pinoli,  uvetta,  sale,  spezie,  albumi  ed  eventualmente  zafferano.  Per  trovarne  di  più  simili  a  quelli  “tradizionali”  occorre  guardare  al  Dubois  (1868),  dove  sono  farciti  con  brasato  di  bue  e  cipolla  e  conditi  con  sugo  di  carne.

     

    I  GRISSINI  DI  TORINO

    Questi  biscottini  in  forma  di  bacchettuccie  […]  si  formano  con  una  pasta  consistente,  di  farina  di  avena,  acqua  distillata  e  alquanto  sale;  quando  vi  si  aggiunge  del  burro,  essi  sono  più  delicati,  ma  durano  però  meno.  La  pasta  si  fa  con  due  lieviti  onde  essere

    più  sottile  e  poter  più  facilmente  tirarla.  I  fornaj  di  Torino  hanno  in  proposito  tale  abilità,  che  tirano  i  grissini della  lunghezza  di  75 centimetri.  Essi  tagliano  la  pasta  […]  l’infornano,  vale  a  dire  passano  la  pala  coperta  di  grissini  entro  un  forno  ben  caldo,  li  tengono  d’occhio,  li  ritirano  tosto  che  abbiano  raggiunto  il  conveniente  grado  di  cottura.

    (La  cuciniera  universale,  1864,  p.  270)

    Secondo  la  tradizione  i  grissini  furono  inventati  a  Torino  nel  1679  dal  fornaio  di  corte, Antonio  Brunero,  per  il futuro  re  Vittorio  Amedeo  II  che,  allora  tredicenne,  non   digeriva  la  mollica  del  pane.  La  novità  ebbe  immediato  successo  e  si  diffuse  in  tutto  il Piemonte  e  poi  nel  resto  d’Italia.

    LO  ZABAJONE

    Sbattete  sei  rossi  d’uova,  o  più  secondo  il  vostro  bisogno; unitevi  del  vino  dolce  […]  tanto  quanto  ne  potrebbero  contenere  i  gusci  di  tutte  le  uova che  avrete  adoperate,  ed  una  buona  cucchiajata  di  zucchero  per  ogni  due  uova;  esponete  al  fuoco,  seguitando  a  frullare,  e  fate  condensare  come  una  crema  senza  lasciar  bollire.  Indi  versate  in  chicchere  e  servite  caldo  con  dei  biscotti  a  parte. (Il  cuoco  pratico  ed economo,  1864,  p.  178)

    Questa  crema  è  attestata  almeno  dal  Cinquecento  e,  benché  sulla  sua  origine  non  vi siano  certezze,  una  tradizione  molto  diffusa  lo considera  un  dolce  tipicamente  piemontese  e  ne  fa derivare  il  nome  dal  francescano  spagnolo  Pasquale  Baylon,  protettore  dei  pasticceri  e  dei  cuochi,  venerato  a  Torino  presso la  chiesa  di  San  Tommaso:  la  “crema  di  San  Baylon”,  in  seguito  semplicemente  sambayon.

    da “La Cucina del Buongusto” 

  • Pietanze prelibate e una sfarzosa “mise en place” alla tavola del Re Sole, dove sedevano anche migliaia di persone.

    Agli ordini dell’esigente maître una schiera di chef, sous chef, sommelier, rosticcieri e pasticcieri si affannava nelle grandi cucine, dove fuochi e forni erano sempre accesi e le grandi marmitte non smettevano mai di sobbollire. Dalle cantine, le cui chiavi erano gelosamente custodite, uscivano bottiglie di magnifici rossi di Borgogna o di Champagne; dagli orti di palazzo, coltivati con tecniche all’avanguardia, arrivavano canestri di verdura, frutta, erbe aromatiche e funghi; dai boschi reali, cacciagione e deliziosi tartufi. Sui taglieri veniva sezionato ogni genere di animale, dal manzo al castoro, dai crostacei alle tartarughe, passando dagli uccelli le cui giunture venivano recise con cura.

    Alla tavola del Re Sole ogni giorno si accomodavano migliaia di nobili con il loro seguito: il sovrano infatti aveva preteso che il suo entourage lasciasse Parigi per seguirlo nella dorata gabbia di Versailles. Si mangiava tutti insieme, come alla mensa di una grande azienda, solo che tutto doveva essere superlativo, perché il cibo rappresentava la generosità del re. Ma per nutrire un simile esercito, ce ne voleva un altro che lavorasse tra i fumi delle cucine.

    TABLEAU ROYAL.

    Un banchetto reale, nelle grandi occasioni, prevedeva non meno di quattro o cinque portate. Immensi vassoi viaggiavano veloci dalle cucine alle sale imbandite, carichi di pietanze ricercate, dall’aspetto magnifico, protette da campane d’argento, pronti ad atterrare sulle tavole con precisione e simultaneità. Tutto arrivava a ondate per trasmettere la sensazione di ricchezza e abbondanza: antipasti, arrosti, stufati, cacciagione, erano intervallati da entremets (portate intermedie, “leggere”, servite tra una pietanza e l’altra) come lingue di cervo, piedini di maiale cotti nel brodo, o morbide tettine di vacca. Le spezie, invece, un tempo ritenute merce pregiata, caddero in disuso quando, nel Seicento, i veneziani persero il monopolio del commercio con l’oriente, causando la caduta dei prezzi e trasformando gli aromi da cucina in prodotti ordinari.

    BUONE MANIERE.

    I cortigiani del Re Sole amavano ascoltare la musica a tavola; in mancanza di musici, apprezzavano anche cantanti, a cui spesso i commensali si univano al ritornello, incuranti del cibo che avevano in bocca.

    Per bere bastava fare un segno al cameriere personale. Una volta vuotato, il bicchiere veniva sciacquato in un bacile, e poco importava se durante il pranzo i recipienti si scambiavano. Il concetto di igiene era molto diverso dal nostro. L’uso delle posate era a discrezione dei commensali, perciò era facile vedere un compìto marchese pulirsi le dita sporche di grasso nella tovaglia dopo aver mangiato con le mani, o una bella contessa sputare nella mano un boccone sgradito e gettarlo sotto il tavolo per gli alani. Manuali di etichetta destinati all’aristocrazia cominciavano a circolare proprio in quest’epoca, ma in pochi li leggevano. Del resto anche il Re Sole preferiva usare le mani per mangiare. Per lui, che naturalmente era il primo a essere servito, venivano portate pietanze per otto. Ovviamente il sovrano non mangiava tutto, assaggiava qua e là, ma ostentava un appetito formidabile.

    Questo, infatti, era considerato segno di buona salute e quindi della capacità di proteggere i sudditi, mentre l’abbondanza e la varietà dei cibi era la prova della potenza della Francia. “Ho spesso visto il re”, annotava la cognata, la principessa Palatina, “mangiare quattro piatti di potage, un fagiano intero, una pernice, un gran piatto di insalata, due grandi fette di prosciutto, del montone all’aglio, un piatto di dolci, e ancora frutta e uova sode”.

    «In quest’epoca», racconta Francesca Sgorbati Bosi in A tavola coi re, «al sovrano spettava il compito di dare prova di straordinaria virilità, sia mentre mangiava sia mentre era a letto, dove si dimostrava altrettanto “onnivoro”: solo che in camera sfilavano favorite e cortigiane, qui piatti molto conditi e innaffiati da champagne». Il banchetto cominciava con un ricco potage, termine che oggi significa zuppa, ma che a Versailles era un piatto complesso, come per esempio un cappone alle ostriche. Per sua Maestà e i commensali svolgeva la funzione di aprire lo stomaco (possiamo immaginare quanto dilatato) mentre venivano servite le prime entrées, che tradurre “antipasti” sarebbe riduttivo: lucci fritti in salsa d’acciughe e maialini al latte guarniti con melagrane, fette di limoni e fiori edibili.

    LA GRANDEUR.

    Quello di Luigi XIV era il primo grande esperimento di Stato nazionale, incarnato da un sovrano assoluto, che non rispondeva a nessuno, se non a se stesso. Il suo potere non derivava solo dalla forza degli eserciti, ma, come nelle grandi corti rinascimentali, anche dalla cultura e dall’arte che, sovvenzionate dalla Corona, convinsero i francesi di essere la più grande nazione al mondo, e di conseguenza anche le altre potenze lo considerarono un dato di fatto.

    Nella seconda metà del Seicento, al culmine del suo regno, tutta l’europa era influenzata dalla cultura e dalla moda francesi. Ovunque le donne aristocratiche si vestivano e si truccavano come a Parigi, e il francese era la lingua parlata da diplomatici e uomini d’affari. E se c’era una cucina invidiata, dappertutto, era senza dubbio quella di Versailles.

    Questo nuovo modo di alimentarsi cancellava di colpo abitudini e regole salutistiche che le élite avevano seguito per secoli, se non per millenni. Fino a quel momento, a dettare legge erano ancora i precetti alimentari di Galeno, padre della medicina, vissuto nell’asia Minore grecizzata del II secolo d.c. A dire di Galeno, l’uomo, come del resto il cosmo, era composto da quattro elementi principali (acqua, aria, terra e fuoco) e, se voleva stare in salute, doveva assumere cibi adatti a mantenerli in equilibrio tra loro.

    Nel Seicento cambiò tutto: le élite non mangiavano i cibi ritenuti salutari, ma esclusivamente quello che il sovrano trovava di suo gusto. Entrarono così in cucina i funghi fino a quel momento disprezzati, dato che proliferano nel letame, perché Luigi ne andava matto, come i piselli e i meloni, che diventarono di gran moda. Fare del mangiare un’esperienza estetica si trasformò in una dimostrazione di status. I cuochi iniziarono a essere considerati artisti. Anche se non erano ancora delle star, come oggi, i migliori erano ricercati e ben pagati.

    PECCATO DI GOLA.

    La rottura con il passato non infrangeva solo prescrizioni mediche millenarie, ma anche di natura religiosa. Mangiare oltre lo stretto necessario un tempo significava commettere peccato, ora invece diventò sintomo di buon gusto, lo stesso con cui si ammirava un quadro. Lo scrittore Charles de Saint-évremond scriveva a un’amica letterata: “A 88 anni mangio ostriche tutte le mattine, pranzo bene e mangio abbondantemente. Quando ero giovane ammiravo solo l’intelligenza, dando al corpo meno importanza di quanto si deve; oggi rimedio a questo errore”.

    Questo non significava che il cattolicesimo, di cui il Re Sole si proclamava massimo difensore, avesse perso il suo peso. Anzi, tra i venerdì, la settimana santa, l’avvento, la Quaresima, i giorni di processione, e i digiuni che i confessori erogavano come penitenza, nella Francia del Seicento si contavano da 100 a 150 giorni all’anno in cui si doveva mangiare di magro.ovviamente parliamo dell’aristocrazia, per il popolo ogni giorno era di magro. I sacerdoti erano indulgenti con i ricchi, a corte era considerato accettabile servire ostriche e aragoste nei giorni di magro, in fondo non erano molto diverse dai pesci che Gesù aveva moltiplicato.

    Alla lunga questa dieta sconsideratamente ipercalorica e proteica segnò la salute di tutti, il re per primo. A quarant’anni, a causa della passione per i dolciumi, Luigi non aveva quasi più denti in bocca, e dai documenti di corte si desume che, invecchiando, fosse tormentato dal diabete e dalla gotta, malattia che i dottori curavano con inutili salassi e clisteri, e che lo condusse alla morte.

    Questo fu l’inevitabile epilogo. Prima però la Francia fece in tempo a fare di cultura, buona tavola e eros i tre valori fondanti della sua identità nazionale.

    Fonte: Focus Storia

  • Di solito racconto la storia e la cultura dei posti che vedo e che visito, invece questa volta inizio raccontando le persone e l’amore per la loro terra, la storia ve la racconterò dopo.

    Ho conosciuto Morrone qualche anno fa, e devo dire che mi ha catturato “quasi” come le montagne della Valle d’Aosta per cui provo un amore incondizionato.

    Territorio e popolazione molto diversa, ma appena entrata in contatto con la cultura vera del paese,  ho conosciuto persone abituate alla fatica del lavorare un territorio non facile – gli orti sono in pendenza – l’asprezza e la severità di certi coltivatori deriva senza alcun dubbio dalla lavorazione di un paesaggio collinare, petroso e argilloso, franoso e franato, senza climi estremi, ma anche senza dolci tepori.

    Sono di carattere mite, ospitali, e di grande semplicità umana.

    Quelli che sono rimasti, purtroppo pochi, ma per fortuna qualcuno giovane è rimasto,  investe in proprio  per la salvaguardia delle tradizioni e del territorio.

    Negli ultimi anni ho visto in loro l’entusiamo di chi vuole far conoscere la propria terra oltre i confini, per ricordare all’Italia e anche un po al mondo che il MOLISE ESISTE! Perché tanti morronesi tornavano e qualcuno torna ancora dalla Germania, dalla Svizzera da tutte le regioni d’Italia o dall’America.

    E cosi l’estate di Morrone è “I Vicoli dei Sapori” II Edizione: un Festival dei prodotti e delle tradizioni di Morrone, musica enogastronomia e momenti di carattere culturale.

    Io quest’anno non ci sarò, ma so che sarà molto molto interessante.

    A dimostrazione un piccolo excursus della scorsa edizione.

    I Vicoli dei Sapori ediz. 2017

     

     

     

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