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NEWS / I direttori dei musei Usa ammettono la vendita delle collezioni permanenti.

L’Association of Art Museum Directors (AAMD) sblocca le dismissioni delle collezioni permanenti per assicurare liquidità a protezione dell’occupazione

C’era una volta la “Sala Vendite” del Museo del Cairo, una sorta di bookshop dove al posto della solita cartolina con la meraviglia del museo, le meraviglie si vedevano proprio. Si trattava per lo più di statuette tolemaiche ed amuleti che il museo aveva a bizzeffe.

Negli Stati Uniti, dove i musei sono nati come collezioni private e come tali, a lungo, sono stati gestiti, era invalsa la pratica capitalista del disinvestimento aggressivo dei pezzi in collezione per l’acquisto di nuove opere.

Dopo le polemiche del 2018, quando alcuni musei avevano venduto in asta pezzi in collezione per evitare la bancarotta o finanziare nuovi acquisti, oggi, nell’era del Covid-19, il buco nei bilanci dei musei Usa ha fatto tornare l’AAMD sui suoi passi. Messa dinanzi alla scelta: salvare personale o salvare opere d’arte, sotto lo sguardo severo dei sindacati, ha optato per il salvataggio del capitale umano. Dal 5 maggio 2020, le rigide regole dei codici di condotta, tornano ad essere soft law e le opere d’arte tornano ad assumere quella funzione di asset class capace di assicurare liquidità immediata. Non soltanto opere in collezione potranno essere vendute, ma è permesso ai musei l’utilizzo dell’endowment, ossia i fondi accumulati tramite lasciti e donazioni private (come annunciato ad aprile dal Metropolitan ) di cui quasi tutti i musei Usa sono dotati e che di regola sono allocati con precisione per acquisizioni e ristrutturazioni.

 

A salvaguardia dell’occupazione

La formula magica usata dall’AAMD per sbloccare le vendite è “direct care”delle collezioni permanenti. Tradotto, le opere in pancia possono essere vendute a patto che i proventi vadano ad “assistenza diretta delle collezioni permanenti”. Decidere che cosa costituisca “assistenza diretta” è stato rimesso, con grande approssimazione, alla discrezione dei board dei musei. Sempre ai consigli di direzione spetta l’arduo compito di rendicontare vendite e allocazione dei fondi. L’AAMD precisa però che l’allentamento delle norme è da intendersi come provvisorio e la ratio dietro “il via libera al deaccessioning” è il salvataggio del museo e non la svendita dell’arte.
Seppure ancora troppo presto per fare previsioni, è probabile che musei di medie e piccole dimensioni, che non possono contare su un endowment-paracadute, e quelli grandi fortemente indebitati si aggrapperanno a questo salvagente. Il riversarsi sul mercato di opere che fino a ieri erano affisse ai muri dei principali musei del paese avrà di certo una ripercussione sul mercato. La sovrabbondanza dell’offerta di alcuni artisti/periodi potrà portare alla caduta dei prezzi o, alternativamente, alla meno probabile – considerati i tempi – salita.

Certamente se le opere posizionate sul mercato dovranno tradursi in liquidità immediata, i board andranno sul sicuro affidandosi ad artisti dal ritorno assicurato. Pertanto è probabile che si manderanno all’asta lavori di Rothko, Warhol, Pollock, O’Keefe o Hockney, piuttosto che la collezione di monete di epoca romana o artisti dalle quotazioni oscillanti. Al di là delle speculazioni, quello che resta certo, oggi, è il fatto che, come altri settori, anche quello dell’arte uscirà mutato da questi mesi e che il prezzo lo pagheranno anche le prossime generazioni, private di opere vendute per soccorrere il capitale umano odierno dal pericolo disoccupazione. Ma siamo convinti che la cura dimagrante dei musei sarà sufficiente a contrastare la crisi? Nella gran parte dei casi il valore economico delle collezioni di un museo risiede in un numero molto limitato di opere, quasi tutte esposte permanentemente. Quindi se un museo vuole evitare di vendere le sue opere più preziose, snaturando la identità, dovrà venderà l’1% delle opere in valore.

Basterà?

 

 

 

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