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  • I risultati di uno studio Usa pubblicato su “Clinical Chemistry” dopo l’analisi di una ciocca di capelli del compositore

    Dopo 200 anni, la scoperta di sostanze tossiche in due ciocche di capelli di Ludwig van Beethoven (1770-1827) potrebbe finalmente risolvere il mistero della sordità del leggendario compositore, che si manifestò quando ancora non era trentenne: sarebbe stata causata dall’alta concentrazione di piombo nel sangue, che avrebbe assunto bevendo continuamente vino di scarsa qualità, dove veniva aggiunto per renderlo più gradevole. E’ quanto ipotizza un nuovo studio americano pubblicato su “Clinical Chemistry”, che ha anche escluso una teoria popolare: l’avvelenamento da piombo come causa della morte dell’autore della “Nona Sinfonia”.

    Il gruppo di ricerca diretto da Nader Rifai, professore di patologia alla Harvard Medical School, ha accertato altissime dosi di piombo nella capigliatura del compositore, che sarebbe stata identificata come la causa della prematura sordità e dei suoi ripetuti disturbi gastrointestinali e renali. Il risultato delle analisi è stato sorprendente: una delle ciocche di Beethoven aveva 258 microgrammi di piombo per grammo di capelli e l’altra 380 microgrammi. Un livello normale nei capelli è inferiore a 4 microgrammi di piombo per grammo. I capelli di Beethoven presentano anche livelli di arsenico 13 volte superiori alla norma e livelli di mercurio 4 volte superiori alla norma. Ma le elevate quantità di piombo, in particolare, potrebbero aver causato molti dei suoi disturbi.

    Il gruppo di ricerca ha recentemente autenticato diverse ciocche di capelli del compositore, nell’ambito di un progetto di sequenziamento del genoma di Beethoven. Tra queste c’erano due ciocche di capelli, note come ciocche Bermann e Halm-Thayer. Entrambe le ciocche erano precedentemente in possesso di Alexander Wheelock Thayer, un famoso studioso di Beethoven. La ciocca Halm-Thayer è in particolare l’unica ciocca di capelli che ha una catena di custodia completamente documentata, passando da Beethoven al compositore austriaco Anton Halm, prima di entrare a far parte della collezione di Thayer. Le ciocche di Bermann e Halm-Thayer sono state sottoposte a nuove analisi e hanno rivelato concentrazioni di piombo circa 64 e 95 volte superiori al normale contenuto di piombo nei capelli. Utilizzando formule costruite dai centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie, i ricercatori hanno stimato che la concentrazione di piombo nel sangue di Beethoven sarebbe stata probabilmente compresa tra 69-71 µg/dL (microgrammi per decilitro). “Si tratta di un livello molte volte superiore a quello normale per gli adulti ed è associato a vari disturbi gastrointestinali e renali, oltre che a problemi di udito. Tuttavia, questi livelli non sono abbastanza elevati da essere considerati l’unica causa della morte del compositore”, ha detto il dottor Paul Jannetto, direttore del laboratorio di ricerca.

    David Eaton, tossicologo e professore emerito dell’Università di Washington che non ha partecipato allo studio, ha dichiarato al “New York Times” che i problemi gastrointestinali di Beethoven “sono del tutto coerenti con l’avvelenamento da piombo”. Per quanto riguarda la sordità di Beethoven, ha aggiunto, “alte dosi di piombo colpiscono il sistema nervoso e potrebbero aver distrutto l’udito. “Se la dose cronica sia stata sufficiente a ucciderlo è difficile da dire”, ha aggiunto il dottor Eaton.

    Nessun studioso suggerisce che il compositore sia stato avvelenato deliberatamente. Ma Jerome Nriagu, esperto di avvelenamento da piombo nella storia e professore emerito dell’Università del Michigan, ha affermato al “New York Times” che nell’Europa del XIX secolo il piombo era usato nei vini e negli alimenti, oltre che in medicine e unguenti. Una probabile fonte degli alti livelli di piombo di Beethoven era il vino a buon mercato. Il piombo, sotto forma di acetato di piombo, chiamato anche “zucchero di piombo”, ha un sapore dolce. All’epoca di Beethoven veniva spesso aggiunto al vino di scarsa qualità per renderlo più gradevole. Il vino veniva anche fatto fermentare in bollitori saldati con il piombo, che si sarebbe disperso con l’invecchiamento del vino, ha detto Nriagu. Inoltre, ha aggiunto, i tappi delle bottiglie di vino venivano imbevuti di sale di piombo per migliorare la tenuta.Beethoven beveva abbondanti quantità di vino, circa una bottiglia al giorno, e più tardi nella sua vita anche di più, credendo che fosse un bene per la sua salute e anche perché ne era diventato dipendente. Negli ultimi giorni prima della sua morte i suoi amici gli davano vino a cucchiaiate. Il suo segretario e biografo, Anton Schindler, descrisse la scena del letto di morte: “Questa lotta per la morte era terribile da vedere, perché la sua costituzione generale, specialmente il petto, era gigantesca. Bevve ancora un po’ del vostro vino Rüdesheimer a cucchiaiate fino alla morte”.

    “Sebbene le concentrazioni rilevate non supportino l’idea che l’esposizione al piombo abbia causato la morte di Beethoven, è possibile che abbia contribuito ai disturbi documentati che lo hanno afflitto per gran parte della sua vita”, ha dichiarato Rifai. “Crediamo che questo sia un pezzo importante di un puzzle complesso e che permetterà a storici, medici e scienziati di comprendere meglio la storia medica del grande compositore”.

    Allora, cosa ha ucciso Beethoven, se non l’avvelenamento da piombo? Recenti studi genomici hanno rilevato che il compositore presentava un forte rischio genetico di malattia epatica, che potrebbe essere stato aggravato dall’uso di alcolici e da una nota infezione da epatite B. Combinando le conoscenze acquisite da questi studi genomici con ulteriori analisi dei capelli del compositore, i ricercatori sperano di restringere una valutazione più precisa del rischio di malattia e della possibile causa di morte.

  • Una delle statue simbolo di Torino è quella dedicata al famoso Conte Verde. Dove si trova questo monumento e chi è il Conte Verde?

    La statua del Conte Verde si trova in piazza Palazzo di Città, davanti al palazzo del Comune di Torino, in pieno centro. E’ un monumento eretto in memoria della spedizione in Oriente di Amedeo VI di Savoia, il Conte Verde appunto, mentre è intento a uccidere due rivali.

    Ci molte curiosità legate alla statua del Conte Verde. Innanzitutto non fu realizzata quando Amedeo VI di Savoia era in vita o subito dopo la sua morte, ma diversi secoli dopo e inaugurata solo il 7 maggio del 1853 alla presenza di Camillo Benso Conte di Cavour.

    Perché Amedeo VI venne soprannominato Conte Verde? Si narra che da giovane si distinse in numerosi tornei nei quali era solito sfoggiare armi e vessilli di colore verde. Questi tratti distintivi divennero così famosi da farlo soprannominare Conte Verde. Il colore continuò a caratterizzarlo anche quando salì al trono: anche in quel caso continuò a vestirsi sempre di verde.

    Il Conte Verde lasciò un’impronta indelebile nello stato sabaudo. Riportò il Paese ad un ruolo di egemonia, attraverso importanti campagne militari e una saggia politica. Tuttavia, anche a causa delle imprese militari, dovette sostenere forti spese, tanto da ricorrere a prestiti da parte di banchieri, come nel caso, nel 1373, della cifra di 8.000 ducati, ottenuti da Bonaventura Consiglio e socio, che tenevano banco a Forlì, offrendo come garanzia la sua corona e altri valori. Di questa difficile situazione economica risentirà anche il successore, Amedeo VII.

    Nel 1359 riassorbì la Baronia del Vaud nei domini diretti dei Savoia, acquistandola dalla cugina Caterina di Savoia-Vaud, per una cifra di 160.000 fiorini d’oro.

    Il suo nome rimane ancora oggi legato al cosiddetto Ordine del Collare, oggi Ordine dell’Annunziata. In seguito il Collare dell’Annunziata venne attribuito a tutti coloro che avessero reso alti servigi allo stato: venivano considerati cugini del re.

    L’origine del blu Savoia, colore nazionale italiano, sembra sia legato a Amedeo VI di Savoia. Il 20 giugno 1366, prima di partire per una crociata voluta da papa Urbano V e organizzata per prestare aiuto all’imperatore bizantino Giovanni V Paleologo, cugino di parte materna del conte sabaudo, Amedeo VI volle che sulla nave ammiraglia della flotta di 17 navi e 2000 uomini, una galea veneziana, sventolasse, accanto allo stendardo rosso-crociato in argento dei Savoia, una bandiera azzurra.

    Non è sicuro che l’uso di vessilli azzurri sia iniziato con Amedeo VI o fosse invece precedente; in ogni caso le più antiche bandiere sabaude pervenuteci, che risalgono al 1589, presentano i colori rosso, bianco (e cioè i colori dello stemma della dinastia) e azzurro. L’azzurro di Casa Savoia, con il passare dei secoli, accrebbe sempre di più la sua importanza fino a diventare, in occasione dell’unità d’Italia (1861), il colore nazionale italiano, tonalità mantenuta anche dopo la nascita della Repubblica Italiana (1946). Una bordatura blu Savoia è stata infatti inserita sull’orlo dello stendardo presidenziale italiano e l’utilizzo della sciarpa azzurra per gli ufficiali delle forze armate italiane e della maglia azzurra per le Nazionali sportive italiane è stato mantenuto anche in epoca repubblicana.

     

  • Fu la prima first lady del Regno d’italia, lanciò nuove mode come una influencer  e si guadagnò un posto d’onore nell’immaginario popolare, tanto che il suo nome è ancora oggi legato al piatto italiano più famoso al mondo: la pizza margherita.

    Regina d’Italia al fianco di Umberto I dal 1878 al 1900, Margherita di Savoia divenne una delle icone più rappresentative e amate della monarchia sabauda.

    Quali sono le ragioni di tanto successo? Un’ineguagliabile “professionalità” nel gestire la propria immagine e un talento naturale nelle pubbliche relazioni.

    JOINT VENTURE DINASTICA.

    Nata a Torino nel 1851, la futura regina era figlia di Elisabetta di Sassonia e del duca di Genova Ferdinando di Savoia, fratello dell’allora sovrano di Sardegna Vittorio Emanuele II. Quando aveva 10 anni, l’illustre zio divenne il primo re d’italia, e presto si pose il problema di trovare una sposa adatta al giovane erede al trono, Umberto. «Dopo vari tentennamenti, la scelta cadde sulla principessa Matilde d’asburgo-teschen, ma a pochi mesi dalla cerimonia la promessa sposa morì in un incendio», racconta Luciano Regolo, autore del libro Margherita di Savoia, i segreti di una regina (Edizioni Ares). «Fu allora che entrò in scena Margherita, cugina di Umberto, ritenuta la moglie “giusta” perché già educata secondo le consuetudini di casa Savoia». Orfana di padre, la giovane aveva all’epoca 16 anni (7 in meno del consorte) e il physique du rôle perfetto: raffinata, intelligente e di bell’aspetto, con lunghi capelli biondi e intensi occhi azzurri. Con Umberto si sposarono a Torino nel 1868, e dopo le nozze intrapresero un tour della Penisola per “sponsorizzare” la neonata monarchia nazionale, guidata da Vittorio Emanuele II senza una regina al fianco (sua moglie Maria Adelaide d’Austria era morta nel 1855).

    Al di là delle apparenze, però, il loro non fu un matrimonio d’amore, ma una joint venture dinastica. Donnaiolo impenitente, Umberto tradì spesso la moglie e rimase per tutta la vita innamorato della contessa Eugenia Bolognini Litta Visconti, rischiando di gettare un’ombra sull’immagine della famiglia reale. Margherita imparò tuttavia a tollerare le intemperanze del consorte, costruendo con lui un’intesa quasi fraterna, e arrivò a permettere alla rivale di vegliare la salma del marito, dopo la sua morte. Ma anche lei ebbe un flirt extraconiugale tollerato da Umberto: si innamorò del barone Luigi Beck Peccoz, con cui costruì un’intensa sintonia negli ultimi anni della permanenza sul trono.

    PERFEZIONISTA.

    Sentimenti a parte, la giovane principessa si gettò subito anima e corpo nel ruolo di “prima dama d’Italia”, accattivandosi sia le simpatie degli aristocratici sia quelle dei futuri sudditi. Come? Curò con estrema attenzione la sua immagine pubblica in modo da non apparire mai fuori luogo. «Prima di ogni viaggio ufficiale, si informava sulle usanze delle donne del popolo, vestendosi come loro e iniziando così un processo che porterà in seguito tutte le italiane a identificarsi in lei», afferma l’esperto. «Alla vigilia del trasloco a Napoli, dove i neosposi si trasferirono subito dopo il matrimonio, volendo mostrarsi radicata nelle tradizioni partenopee arrivò persino a prendere lezioni di mandolino, imparando alcune canzoni napoletane». Se per piacere alla gente comune partecipava a feste e raduni o presenziava a iniziative di carità, per conquistare gli aristocratici organizzava balli, concerti e letture, sfruttando gli eventi mondani per radicare il consenso attorno alla dinastia regnante. E non fu certo un compito facile: a Napoli, parte dell’aristocrazia era ancora filo-borbonica e a Roma, solo nel 1870 annessa al Regno d’italia, la cosiddetta “nobiltà nera” rimaneva fedele al Papa. Per vincere ogni diffidenza la principessa ricorse a un mix di diplomazia e charme, mostrando innate doti da comunicatrice, e costruì una fitta rete di relazioni. Alla fine, l’“operazione popolarità” riuscì alla perfezione e dopo l’ascesa al trono di Umberto, nel 1878, la fama della nuova regina non fece che crescere. Durante una visita dei reali a Napoli, Raffaele Esposito inventò la pizza “tricolore” e la chiamò Margherita

    TUTTI PAZZI PER LEI.

    «La suggestione nei confronti di Margherita diede vita al cosiddetto “margheritismo”, un fenomeno di costume che alla fine del XIX secolo influenzò diversi ambiti della vita sociale, in primis la moda», spiega Regolo.

    «Da sempre appassionata di abiti e gioielli, per cui spendeva cifre immense, la regina divenne infatti un’icona di stile, tanto che una delle prime riviste di moda del Paese si chiamerà in suo onore Margherita, il giornale delle signore italiane». Nel frattempo le venne intitolato un po’ di tutto, da nuove pietanze a rifugi alpini. In altri casi, invece, era lei stessa a importare usanze divenute poi patrimonio collettivo, come quella dell’albero di Natale, allestito da Margherita per la prima volta nelle sale del Quirinale a imitazione di quanto avveniva nelle corti nordeuropee. A differenza del marito, per nulla interessato alla cultura e spesso impacciato nei rapporti personali, la regina dimostrò inoltre un’innata curiosità verso molte discipline, dalla musica classica alla letteratura, passando per la scienza e lo spiritismo. Le porte del suo salotto si aprirono quindi a poeti, intellettuali e musicisti, che ricambiarono le attenzioni di sua maestà con lodi piene di retorica. Persino un fervido repubblicano come Giosuè Carducci rimase affascinato da quella che definì la bionda e gemmata sovrana e le dedicò un’ode intitolata Alla regina d’Italia (1878), che gli attirò critiche feroci negli ambienti anti-monarchici. Con alcuni dei suoi ammiratori, tra cui lo stesso grande poeta toscano e soprattutto Marco Minghetti, suo insegnante di latino, la regina intrattenne anche intensi rapporti epistolari.

    MAMMA TIGRE.

    Entrata nell’immaginario collettivo come incarnazione delle virtù femminili, Margherita si cucì addosso la fama di “mamma” d’Italia e presto fioccarono aneddoti per esaltarne l’istinto materno. Eppure, nei rapporti con il figlio, il futuro re Vittorio Emanuele III (venuto alla luce nel 1869), fu una madre molto diversa da quella raffigurata nella propaganda. Anzi, scaricò su di lui il suo maniacale perfezionismo. «Margherita visse sempre un profondo senso di colpa per il fatto che Vittorio soffrisse di una forma di rachitismo che, ai suoi occhi, lo rendeva inadatto a rappresentare degnamente la dinastia», spiega Regolo. «Con l’intento di forgiare il carattere dell’erede al trono, pretese quindi che eccellesse in tutto a dispetto dei suoi limiti fisici. Nella psiche del principe ciò ebbe effetti devastanti e gli provocò insicurezze e complessi».

    VEDOVA.

    Nei 22 anni in cui affiancò Umberto sul trono, Margherita non rimase indifferente agli eventi esplosivi che scossero il Paese, segnato da agitazioni popolari e dalla nascita dei primi movimenti operai. Le tensioni culminarono il 29 luglio del 1900 con l’uccisione di Umberto I per mano dell’anarchico Gaetano Bresci. Un evento drammatico a cui la regina reagì con estrema teatralità. Raccolse per esempio gli abiti insanguinati e in seguito anche il proiettile e le fece conservare in un cofanetto in ebano, come si sarebbe fatto con le reliquie di un santo; e contribuì alla creazione del mito del “re martire”, alimentato dai giornali dell’epoca.

    CONSERVATRICE.

    Nonostante le opinioni fortemente conservatrici, Margherita rimase per molti aspetti una donna moderna», continua l’esperto. «Divenne per esempio una pioniera dell’automobilismo, guidando personalmente le vetture e creandosi un leggendario “parco auto”».

    Come regina madre, si eclissò solo in apparenza, continuando a incontrare personalità illustri, tra cui Maria Montessori, a organizzare eventi mondani e a svolgere attività di beneficenza. Il palazzo nel quale si ritirò, a Roma, oggi sede dell’ambasciata americana, sostituì la reggia del Quirinale, utilizzata pochissimo da Elena e Vittorio Emanuele III, la nuova coppia reale. E la “connessione sentimentale” con gli italiani rimase viva fino al momento della morte, giunta a Bordighera il 4 gennaio 1926, quando la regina madre aveva 74 anni. Il treno che la riportò a Roma si dovette fermare ben 92 volte per permettere alla folla di porgerle l’estremo saluto. Senza giri di parole, il Corriere della Sera scrisse che la sua salma era “ormai assurta a simbolo”.

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