Tag: #fotoreporter

  • TORINO | MUSEI REALI | SALE CHIABLESE
    DAL 17 MARZO AL 16 LUGLIO 2023

     

    RUTH ORKIN
    UNA NUOVA SCOPERTA

     

    La mostra presenta 156 fotografie che ripercorrono la traiettoria di una delle più grandi fotoreporter del Novecento

     

     A cura di Anne Morin

     

    Dal 17 marzo al 16 luglio 2023, le Sale Chiablese dei Musei Reali di Torino ospitano la più vasta antologica mai organizzata in Italia di Ruth Orkin (Boston 1921 – New York 1985), fotoreporter, fotografa e regista statunitense, tra le più rilevanti del XX secolo.

    L’esposizione dal titolo RUTH ORKIN. Una nuova scoperta, curata da Anne Morin, organizzata da di Chroma, prodotta dalla Società Ares srl con i Musei Reali e il patrocinio del Comune di Torino, riunisce 156 fotografie, la maggior parte delle quali originali, che ripercorrono la traiettoria di una delle personalità più importanti della fotografia del XX secolo, in particolare tra il 1939 e la fine degli anni Sessanta, attraverso alcune opere capitali come VE-Day, Jimmy racconta una storia, American Girl in Italy, uno dei suoi scatti più iconici della storia della fotografia, i ritratti di personalità quali Robert Capa, Albert Einstein, Marlon Brando, Orson Welles, Lauren Bacall, Vittorio De Sica, Woody Allen e altri.

    “Come curatore e storico della fotografia – afferma Anne Morin -, mi è sempre sembrato che il lavoro di Ruth Orkin non abbia ricevuto il riconoscimento che merita. Eppure, se questa fotografa ha un destino affascinante, il suo lavoro lo è altrettanto. Questa mostra si propone di rivisitare il lavoro della donna che voleva essere una regista e che, a causa delle circostanze, essendo un mondo cinematografico maschile, ha dovuto trovare il suo posto altrove. Non ha rinunciato al suo sogno, ma lo ha affrontato in modo diverso, creando un linguaggio singolare, estremamente ricco e nuovo attraverso la fotografia. Il lavoro fotografico di Ruth Orkin riguarda le immagini, il cinema, le storie e, in definitiva, la vita. Questa mostra è l’affermazione definitiva del lavoro di questa giovane donna che ha reinventato un altro tipo di fotografia”.

    “Dopo il grande successo di Vivian Maier – dichiara Edoardo Accattino, Amministratore Ares srl -, portiamo a Torino una nuova mostra, dedicata a Ruth Orkin, fotografa elegante e sofisticata. La più ampia antologia mai realizzata su una delle firme più importanti del XX secolo, la cui opera è ancora oggi poco nota. Per questo, abbiamo voluto creare un percorso coinvolgente che accompagnerà i visitatori a scoprire e conoscere un’artista sensibile, la cui straordinaria opera affascinerà il pubblico torinese”.

    “L’esposizione monografica su Ruth Orkin – sostiene Enrica Pagella, Direttrice dei Musei Reali-continua la serie di mostre dedicate alla fotografia quale cifra identitaria delle Sale Chiablese, spazio che i Musei Reali riservano soprattutto alle arti contemporanee e alla riflessione sui mezzi di comunicazione che hanno contribuito a mutare il volto della storia e della società. Dopo Vivian Maier. Inedita e Focus on Future.  14 fotografi per l’Agenda ONU 2030, questa antologica restituisce una riflessione attenta ai diversi linguaggi che hanno condotto l’artista ad accreditarsi e a distinguersi nel panorama della fotografia mondiale, attestando il primato e la visionarietà di uno sguardo ancora da approfondire, fedele alla narrazione di un’epoca in cui l’affermazione di genere era una conquista lontana, anche in ambito artistico”.

    La mostra affronta il suo lavoro da una prospettiva completamente nuova, all’incrocio tra l’immagine fissa e l’immagine in movimento. Affascinata dal cinema, Ruth Orkin sognava infatti di diventare una regista, grazie anche all’influenza della madre, Mary Ruby, attrice di film muti, che la portò a frequentare le quinte della Hollywood degli anni Venti e Trenta del Novecento. Nella prima metà del secolo scorso, tuttavia, per una donna la strada per intraprendere questa carriera era disseminata di ostacoli. Ruth Orkin dovette quindi rinunciare al sogno di diventare cineastao perlomeno dovette reinventarlo e trasformarlo; complice il regalo della sua prima macchina fotografica, una Univex da 39 centesimi, si avvicinò alla fotografia, ma senza mai trascurare il fascino del cinema.

    Proprio l’appuntamento mancato con la sua vocazione, la costringerà a inventare un linguaggio alla confluenza tra queste due arti sorelle, tra l’immagine fissa e l’illusione dell’immagine in movimento, un linguaggio che induceva una corrispondenza costante tra due temporalità non parallele. Attraverso un’analisi molto specifica dell’opera di Orkin, la rassegna permette di capire i meccanismi messi in atto per evocare il fantasma del cinema nel suo lavoro. Come avviene nel suo primo Road Movie del 1939, quando attraversò in bicicletta gli Stati Uniti da Los Angeles a New York. In quell’occasione, Ruth Orkin tenne un diario che diventò una sequenza cinematografica, un reportage che raccontava questo viaggio e la cui linearità temporale si svolge in ordine cronologico. Ispirandosi ai taccuini e agli album in cui la madre documentava le riprese dei suoi film, e utilizzando lo stesso tipo di didascalie scritte a mano, l’artista inseriva l’immagine fotografica in una narrazione che riprendeva lo schema della progressione cinematografica, come se le fotografie fossero immagini fisse di un film mai girato e di cui vengono esposte 22 pagine.

    Il percorso propone inoltre lavori come I giocatori di carte o Jimmy racconta una storia, del 1947, in cui Ruth Orkin usa la macchina fotografica per filmare, o meglio, per fissare dei momenti, lasciando allo sguardo dello spettatore il compito di comporre la scena e riprodurre il movimento, ma anche le immagini e il film Little fugitive (1953), candidato al Premio Oscar per la migliore storia cinematografica e vincitore del Leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia, che racconta la storia di un bambino di sette anni di nome Joey (Richie Andrusco) che fugge a Coney Island dopo essere stato indotto con l’inganno a credere di aver ucciso suo fratello maggiore Lennie e che François Truffaut riteneva di fondamentale importanza per la nascita della Nouvelle vague.

    Nei primi anni Quaranta, Ruth Orkin si trasferisce a New York, dove diventa membro della Photo League, cooperativa di fotografi newyorkesi, e instaura prestigiose collaborazioni con importanti riviste, tanto da diventare una delle firme femminili del momento.

    È in questo periodo che realizza alcuni degli scatti più interessanti della sua carriera. Con Dall’alto Orkin cattura perpendicolarmente da una finestra gli avvenimenti che si svolgono per strada, riprendendo alcune persone del tutto ignare di essere oggetto del suo sguardo fotografico: un gruppo di signore che danno da mangiare ai gatti di strada; un padre che, acquistata una fetta di anguria, la porge alla figlia davanti al chiosco del venditore ambulante; due poliziotti che fanno cordone attorno a un materasso logoro abbandonato per strada; due bambine che giocano a farsi volteggiare l’un l’altra; un gruppo di marinai che incedono speditamente e che divengono riconoscibili per i loro cappelli che si stagliano come dischi bianchi sul fondale grigio dell’asfalto.

    A molti anni di distanza, tornò a questo genere di scatti: da una finestra con vista Central Park, l’artista riproponeva lo stesso gesto e la stessa inquadratura, nelle diverse stagioni, registrando la fisionomia degli alberi, la tonalità delle loro foglie: il soggetto è proprio il tempo e il suo scorrere, sotto forma di una sequenza che parla dell’elasticità del tempo filmico.

    La mostra darà poi conto del reportage per la rivista LIFE, realizzato nel 1951 in Israele a seguito della Israeli Philarmonic Orchestra e del viaggio compiuto in Italia, visitando Venezia, Roma e Firenze, città dove incontra Nina Lee Craig, una studentessa americana, alla quale chiede di farle da modella per un servizio volto a narrare per immagini l’esperienza di una donna che viaggia da sola in un paese straniero e che divenne soggetto di American Girl in Italy, una delle sue fotografie più iconiche e più famose della storia della fotografia; la scena che immortala Nina Lee Craig passeggiare per le strade di Firenze tra un gruppo di uomini che ammiccano al suo passaggio, riesce a ispirare a Ruth Orkin la foto-racconto che cercava da tempo.

    Accompagna la mostra un catalogo Skira.

     

    RUTH ORKIN. Una nuova scoperta
    Torino, Musei Reali | Sale Chiablese (Piazzetta Reale)
    17 marzo – 16 luglio 2023

    Informazioni: Tel. 338 169 1652

     

    Orari:
    • dal martedì al venerdì, dalle 10.00 alle 19.00
    • sabato e domenica, dalle 10.00 alle 21.00
    • (ultimo ingresso un’ora prima della chiusura)

    Biglietti:

    • Intero: € 15,00
    • Ridotto: € 13,00
    over 65, insegnanti, gruppi, possessori card (Feltrinelli, Mondadori, Arci, Aiace, Coop, Ikea, Fiaf), Dipendenti Comune di Torino, Città metropolitana di Torino e Regione Piemonte
    • Ridotto studenti: € 10,00 (ragazzi tra 18 e 25 anni, giornalisti non accreditati)
    • Ridotto ragazzi: € 6,00 (ragazzi tra 12 e 17 anni compiuti)
    • Pacchetto famiglia: fino a due adulti € 12,00 cad. e ogni ragazzo tra 12 e i 17 anni € 6,00 cad.
    • Gratuito: possessori dell’Abbonamento Musei Piemonte Valle d’Aosta, Torino+Piemonte card, bambini da 0 a 11 anni, persone con disabilità, dipendenti MiC, giornalisti in servizio previa richiesta di accredito all’indirizzo info@mostraruthorkin.it
    Visite guidate gruppi (tariffe biglietto e diritti di prenotazione escluse)
    visita guidata in italiano: € 90,00
    visita guidata per le scuole: € 90,00
    visita guidata + laboratorio per le scuole: € 130,00
    _________________________________________________________
    ANNE MORIN
    Curatrice della mostra

    Ruth Orkin. L’illusione del tempo*

    Creata nel 1936 e presieduta per la prima volta da King Vidor, la Directors Guild of America (DGA) è un’organizzazione sindacale di registi che ha per obiettivo la difesa dei diritti dei propri membri nell’industria cinematografica degli Stati Uniti. La cineasta Dorothy Arzner entrò a farne parte nel 1938 e rimase l’unica donna fino all’ingresso della collega Ida Lupino (1914-1995) nel 1966. Sin dall’inizio, il mondo del cinema americano non sembrava orientato alla parità dei sessi. Tanto nel mondo del cinema quanto in quello della fotografia, le donne erano chiamate a svolgere compiti minuziosi legati alla produzione, allo sviluppo dei negativi o al montaggio della pellicola, per certi versi affine al cucito. Pochissime accedevano alla sfera della creazione e della vera e propria cinematografia. Tra le eccezioni vanno ricordate Alice Guy (1873-1968),riconosciuta come la prima regista donna, Lois Weber (1879-1939), attrice, soprano e pianista, una delle più prolifiche registe del primo Novecento, Frances Marion (1888-1973), prima sceneggiatrice a essersi aggiudicata l’Oscar nel 1930 per l’adattamento di The Big House (Carcere), e Maya Deren (1917-1961), distintasi per il suo contributo alla ridefinizione del cinema sperimentale americano.

    Negli Stati Uniti della prima metà del Novecento, il percorso di un’aspirante regista si prospettava irto di ostacoli. Le donne si occupavano di alimentare l’industria dei sogni, non di crearla; di conseguenza, qualsiasi carriera dietro la macchina da presa era immancabilmente riservata agli uomini. Anche Ruth Orkin (Boston, 3 settembre 1921 – New York, 16 gennaio 1985) deve rinunciare al suo sogno di diventare cineasta, o quantomeno procrastinarlo e trasformarlo – ma forse sarà proprio questo scoglio a rendere il suo lavoro di fotografa tanto originale.

    Figlia di Mary Ruby, attrice del cinema muto, e di Samuel Orkin, fabbricante di barchette in legno, Ruth cresce dietro le quinte della Hollywood degli anni venti e trenta. A dieci anni riceve in regalo la sua prima macchina fotografica, una Univex da 39 centesimi, con la quale esegue i primi scatti. La sua vera passione, però, è l’immagine-movimento, il cinema. Per un certo periodo lavorerà alla Metro-Goldwyn-Mayer come fattorina, correndo alacremente da un dipartimento all’altro ma prendendosi comunque il tempo di osservare ciò che la circonda e assorbire molti degli insegnamenti che continuerà a mettere in atto nelle sue immagini fisse. Parallelamente, all’inizio degli anni quaranta, studierà fotogiornalismo al Los Angeles City College e lavorerà come fotoreporter per grandi riviste come “Life”, “Look” e “Ladies Home Journal”. Ma la fascinazione per il potere euristico del cinema emerge in filigrana in tutta l’opera di Orkin, e questo appuntamento mancato con la sua vocazione la stimolerà a inventare un linguaggio a cavallo tra i generi: un linguaggio che si colloca oltre l’immagine in movimento e prima di quella fissa, che stabilisce una correlazione costante tra le due temporalità non parallele. Queste linee segrete non smetteranno di influenzarsi reciprocamente, insinuandosi, confondendosi, aprendosi e ripiegandosi l’una sull’altra.

    In effetti, analizzando l’opera di Orkin fin dai suoi esordi, il fantasma del cinema appare in diverse forme: si intrufola nei piccoli interstizi del fotogramma e crea un doppio fondo nell’immagine in cui il flusso del movimento prende un suo ritmo. Una scintilla, una traccia che contiene in sé un “effetto filmico”, una durata simulata da un effetto speciale visibile. Dopotutto, il cinema non è l’arte del movimento realizzato a partire dalla fissità?

    Orkin ricorre costantemente a un processo di serialità e intermittenza in cui, in un modo o nell’altro, il tempo regna sovrano. Il meccanismo più elementare consiste semplicemente nell’accostare due figure simili o quasi identiche, ma sufficientemente diverse tra loro da non ingannare l’osservatore. Questo sdoppiamento serve a trasmettere un’idea di simultaneità attraverso una piccola pausa che crea l’illusione del movimento. Le due figure giustapposte declinano un gesto, ripetono una postura o un atteggiamento con un leggero sfalsamento. Tra di esse intercorre un breve intervallo di spazio all’interno del quale si colloca il tempo. Come nella successione di singole immagini utilizzata nell’animazione, l’unione di queste figure genera l’idea di moto e, di conseguenza, stabilisce una temporalità. 

    Questa stessa temporalità può essere distribuita su più immagini con un intervallo variabile. In quello che può definirsi il suo primo “road movie”, realizzato nel 1939 mentre attraversa gli Stati Uniti in bicicletta da Los Angeles a New York, Ruth Orkin tiene un diario che diviene una sequenza filmica in sé, una sorta di documentario la cui linearità temporale si dispiega secondo un ordine cronologico. Ispirandosi ai quaderni e agli album delle riprese che la madre Mary Ruby conservava dei propri film, e utilizzando lo stesso tipo di didascalie manoscritte, Orkin inserisce l’immagine fotografica in una sequenza narrativa che riprende lo schema della progressione cinematografica. Il tempo del racconto è quello della durata del viaggio. Anche in questo caso, Orkin frammenta la continuità e scandisce tale scissione con le immagini, fotogrammi del film mai girato. Ciò che conta, dirà Gilles Deleuze nel saggio L’immagine-movimento (1983),“è l’interstizio tra immagini, tra due immagini: una spaziatura che fa sì che ogni immagine si strappi al vuoto e vi ricada”. Uno spazio in cui l’immagine si fa flusso. L’idea è ripresa alla lettera nei sei fotogrammi della sequenza I giocatori di carte (The Card Players), o in Jimmy racconta una storia(Jimmy The Storyteller), del 1947. Orkin filma con la sua fotocamera e induce un’idea di scatto, di scansione ritmica, di frammentazione, facendo affidamento sullo sguardo dello spettatore per restituire il movimento alla stregua di uno zoo praxiscopio.

    Intorno al 1943, Orkin si trasferisce a New York, dove lavora come fotografa nei locali notturni, e più o meno nello stesso periodo aderisce alla Photo League. Le collaborazioni con le principali riviste si moltiplicano ed è a questo punto che la sua carriera decolla. Orkin diventa una delle firme femminili del momento. Nel 1951 segue la Israel Philharmonic Orchestra in Israele per conto della rivista “Life” e poche settimane dopo parte per l’Italia.

    A Firenze incontra Ninale e Craig, studentessa d’arte americana che diventa la protagonista della celebre foto Un’americana in Italia (An American Girl in Italy). Lo scatto faceva originariamente parte di una serie intitolata Non aver paura di viaggiare da sola (Don’t Be Afraid to Travel Alone), incentrata sulle esperienze che le due donne avevano vissuto viaggiando da sole nell’Europa del dopoguerra. Anche stavolta Orkin trae ispirazione da un genere che renderà la serie una delle più emblematiche della sua carriera. Il tema è infatti sviluppato sulla base del fotoromanzo, estremamente in voga in Italia alla fine degli anni quaranta. Apparsa nel 1947, questa nuova forma narrativa che abbina testo e illustrazioni fotografiche diviene il più grande successo editoriale del dopoguerra, sia in Italia che in Francia. Assimilabile al cinema muto nella costruzione e al fumetto nella sua formulazione, il fotoromanzo alimenta la macchina dei sogni che deve lavorare a pieno regime e far dimenticare gli orrori della guerra. Emblema della cultura di massa, segna l’inizio di una nuova era in cui la fotografia segue le orme del cinema e il tempo filmico si fonde in quello dello scatto fotografico.

    Ruth Orkin non esita a imboccare questa strada e inventa una sequenza estremamente teatrale, in cui la protagonista – attrice estemporanea –accentua la sua performance, che a tratti si fa persino caricaturale, per rendere chiara la storia raccontata e il filo conduttore della narrazione.

    Se le immagini di Orkin contengono intervalli di spazio che generano un’idea di continuità, gli intervalli di tempo a loro volta non sono meno rilevanti. Una delle ultime serie che l’artista riesce a realizzare è incentrata sullo scorrere del tempo. Scattando fotografie dalla sua finestra che affaccia su Central Park con lo stesso gesto e la stessa inquadratura, Orkin registra la fisionomia degli alberi e la tonalità delle foglie nel corso delle diverse stagioni, dando forma a una sequenza che esprime l’elasticità del tempo filmico. In fin dei conti, si può forse affermare che la sua opera risieda in questi intervalli da cui emerge un “fuori tempo” nascosto nell’ombra, e che la realtà che Ruth per tutta la vita ha cercato di cogliere agli angoli delle strade di Manhattan, alla Penn Station o sulle banchine di un porto si celi non dietro le apparenze, ma nelle ellissi temporali.

    ________________________________________________________

    ENRICA PAGELLA
    Direttrice Musei Reali

    L’esposizione monografica su Ruth Orkin prosegue il programma di mostre dedicate alla fotografia quale cifra identitaria delle Sale Chiablese, spazio che i Musei Reali riservano soprattutto alle arti contemporanee e ai mezzi di comunicazione che hanno contribuito a mutare il volto della storia e della società.

    La mostra restituisce una riflessione sui diversi linguaggi che hanno condotto Orkin ad accreditarsi e a distinguersi nel panorama della fotografia mondiale attraverso la narrazione di un’epoca in cui l’affermazione di genere era una difficile conquista. La sua produzione vive al confine tra cinema e fotografia, tecnica praticata sin dagli esordi giovanili, durante una sorta di road movie compiuto da Los Angeles a New York in bicicletta per raggiungere l’Esposizione Universale del 1939. A Los Angeles lavora come fattorina per la Metro-Goldwyn-Mayer, cercando di carpire ogni segreto del set, ma il sindacato dei direttori della fotografia non ammette le donne. Nel 1943 è impegnata nei locali notturni a New York, dove prendono avvio collaborazioni con le più importanti riviste dell’epoca e nel 1951, dopo un servizio per “Life” in Israele, incontra a Firenze la studentessa di storia dell’arte Ninale e Allen Craig, che diventa la protagonista della celebre serie Non aver paura di viaggiare da sola(Don’t Be Afraid to Travel Alone) e dell’iconico scatto Un’americana in Italia(An American Girl in Italy).

    La conquista della fama come regista giunge accanto al marito Morris Engel, che incontra a New York quando entra a far parte dell’associazione d’avanguardia Photo League. La fotografia di documentazione sociale, evoluzione della street photography, la porta ad affermarsi nel panorama cinematografico indipendente degli anni cinquanta, che sarà di ispirazione per Scorsese e Truffaut. Alcune sequenze del più importante lungo metraggio di Orkine Engel, Il piccolo fuggitivo (Little Fugitive), candidato all’Oscar e vincitore del Leone d’argento a Venezia nel 1953, sono esposte in mostra. Nell’ultimo periodo della sua vita, Orkin si dedica a documentare soggetti mobili visti dall’alto, dalla finestra del suo appartamento su Central Park,nel fluire continuo del tempo: una finzione scandita da attimi reali colti improvvisamente, fissati per immagini con la forza innata del suo racconto cinematografico. La sua storia di donna libera e la sua costante sfida alle convenzioni rappresentano ancora oggi un modello di modernità capace di affascinare e di ispirare.

     

     

  • Fino al 30 settembre 2022

    TUTTE LE GUERRE. Fotografie 1998-2019

    FRANCO PAGETTI 

    Vent’anni di conflitti raccontati in più di 250 foto da uno dei più autorevoli fotoreporter internazionali al Palazzo Senza Tempo di Peccioli (PI)

     

    Afghanistan, Kosovo, Timor Est, Kashmir, Palestina, Sierra Leone, Sud Sudan, Siria: Franco Pagetti, uno dei più autorevoli fotoreporter internazionali per Time, The New York Time, Le Monde, The Independent, ha trascorso vent’anni a fotografare la guerra confrontandosi ogni volta con la violenza e l’arbitrarietà dei conflitti.

    La mostra “Tutte le guerre. Fotografie 1998-2019” al Palazzo Senza Tempo di Peccioli (PI), inaugurata nell’ambito della kermesse Pensavo Peccioli curata da Luca Sofri, conduce i visitatori proprio dentro l’orrore della guerra, per dimostrarne la sua orribilità ed inutilità.

    Il collage di 250 foto del grande parallelepipedo centrale vuole testimoniare le sofferenze subite dalle vittime dell’assurdità della guerra, vuole raccontare l’annullamento dell’identità delle cose, degli spazi, della cultura, della storia e dell’educazione che ogni conflitto provoca, vuole infine mostrare l’umanità delle persone. In mostra, le foto della guerra in Iraq, dove Pagetti ha vissuto per sei anni, dal 2003 al 2008, raccontando la caduta del regime di Saddam Hussein, l’ascesa dei gruppi terroristici e insurrezionalisti e la guerra civile. Ma anche le storie e le immagini dall’Afghanistan che trasmettono la sua capacità empatica e l’assenza di pregiudizio. E poi, in una sala dedicata, The Veils of Aleppo, sulle tende di Aleppo, realizzato nel 2013, il reportage con cui Pagetti ha cambiato il modo di fotografare la guerra: i soggetti delle immagini non sono persone morte, ferite o armi, ma le tende colorate che vedeva per strada, rivelatrici della vita degli abitanti di una città devastata dai bombardamenti. Le tende a righe, un tempo tende da sole, sollevano una riflessione su come è cambiato il loro utilizzo: se prima erano un oggetto quotidiano per proteggere la privacy di una famiglia, o ripararsi dal sole, adesso sono cucite insieme dalle donne e messe in mezzo alle strade per proteggere gli uomini della famiglia dai cecchini. La serie di fotografie rappresenta “Una reazione umana – racconta Franco Pagetti – per proteggermi dall’orrore del mondo in cui camminavo: concentrarsi su un elemento di bellezza nel caos, o creare una distanza tra me e gli eventi. Io proteggevo la mia stabilità mentale, i siriani la loro vita”.  

    TESTO CRITICO

    L’invasione russa dell’Ucraina, le sue stragi e le sue distruzioni, le persone che sono vittime, sono di nuovo raccontate dalle immagini dei fotoreporter di guerra, anche in questi tempi di social network, influencer e cambiamenti nella comunicazione di ogni cosa. E sono immagini che da una parte sembrano sempre le stesse, per ogni guerra, e dall’altra rinnovano il loro effetto e la loro capacità di mostrare cose terribili e incredibili e che pensavamo lontane: lontane nel tempo o lontane nello spazio. Ma le guerre non hanno mai smesso di essere combattute e di essere usate per avidità, prepotenza, ignoranza, e niente come le immagini dei fotoreporter ha cercato di ricordarcelo anche negli anni passati, quando la guerra in Europa ci sembrava impensabile. Le foto di Franco Pagetti, fotoreporter che ha seguito alcune delle guerre recenti più lunghe e gravi, sono fra quelle che con più insistenza e professionalità hanno anticipato quello che saremmo tornati a vedere quest’anno. 

    Luca Sofri, curatore di Pensavo Peccioli

    BIOGRAFIA DI FRANCO PAGETTI

    Franco Pagetti, nasce a Varese nel 1950. Studia chimica a Milano. Si avvicina alla fotografia nel 1980: inizialmente come assistente della fotografa di architettura Carla De Benedetti ma in seguito inizia a produrre immagini per i mondi della moda e commerciale. Nella sua prima vita da fotografo, da metà anni Ottanta a metà anni Novanta, collabora con i giornali italiani Vogue, Elle, Marie Claire, Amica. Mentre firma campagne pubblicitarie internazionali, nel 1988 realizza il suo primo reportage sulle donne torturate dal regime cileno. Nel 1997, decide di dedicarsi esclusivamente al fotogiornalismo.

    A quasi cinquant’anni inizia la sua seconda vita, che nel 2007 lo vede diventare membro della nota agenzia VII, di cui fa tuttora parte. Copre le zone di conflitto più calde: nel 1998 è in Sudan del Sud e in Afghanistan, dove torna nel 2001, nel 2009 e nel 2010; nel 1999 è in Kosovo e a Timor Est, nel 2000 e nel 2001 è in Kashmir; nel 2000 in Sierra Leone e nel 2001 e 2002 in Palestina. Le sue fotografie di guerra ritraggono esseri umani in condizioni estreme e si fanno testimonianza di atti di incredibile eroismo. Ma anche di enormi brutalità. I suoi reportage vengono pubblicati in America su Newsweek, The New York Times, The New Yorker, Stern, Sunday TimesVogue America e in Europa su Le Figaro, Paris Match, Le Monde, The Times of London, The Independent. Per il settimanale TIME, da gennaio 2003 fino a dicembre 2008 è in Iraq dove, grazie al suo intuito, arriva già tre mesi prima dell’invasione americana di Baghdad che segna l’inizio della guerra. Le sue immagini dal fronte sono uno fra i più accurati e completi reportage dall’Iraq, catturano gli orrori della guerra, i saccheggi, le battaglie, la formazione di gruppi di ribelli e di terroristi: l’inesorabile discesa verso una sanguinosa guerra civile nonostante la flebile speranza di rinascita dopo la caduta del regime di Saddam Hussein. Nel 2012, al Pictures of the Year International Contest gli è stato conferito l’Award of Excellence e, sempre nel 2012 ha ricevuto una nomination agli Emmy Awards for News & Documentary, per il documentario: DRC, Starved For Attention. New York. Nel 2012 e nel 2013 viene premiato al PX3 PRIX DE LA PHOTOGRAPHIE PARIS e la regista Aeyliya Husain gira un film su di lui, Shooting War, presentato al Tribeca Film Festival. Le sue fotografie sono state esposte in numerose mostre nazionali e internazionali e fanno parte di collezioni private e istituzionali.

HTML Snippets Powered By : XYZScripts.com