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  • La GAM di Torino è felice di annunciare che anche quest’anno il museo è tra i vincitori della seconda edizione del PAC – Piano per l’Arte Contemporanea della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.  Grazie ai fondi messi a disposizione dal Ministero la GAM acquisirà 12 dipinti di Michele Tocca (Subiaco, Roma, 1983) realizzati tra il 2016 e il 2022.

    Le opere acquisite, insieme ad altri dipinti di Tocca, saranno oggetto nel 2023 di una mostra, Michele Tocca. Repoussoir, che porrà il suo lavoro in dialogo con alcuni, meditati, esempi di dipinti tratti dalla collezione di Ottocento della GAM, tra cui opere di Giovanni Battista De Gubernatis, Massimo D’Azeglio, Antonio Fontanesi.

    La mostra e la pubblicazione renderanno evidente come l’opera di Tocca sappia incarnare una fertile contraddizione: la prima volta dello sguardo che si pone di fronte al mondo per scoprirlo nuovamente nella dimensione dell’istante, e la consapevolezza del “vedersi vedere” che è la consapevolezza dell’artista di essere immerso nel mondo che va dipingendo e di tutte le strutture di pensiero, di tutti i meccanismi della visione, di tutte le tradizioni dell’arte che entrano in gioco nel suo osservare e nel suo fare.

    I 12 dipinti di Tocca rappresentano quanto di meglio la pittura contemporanea sta producendo in Italia e il tramandarsi di sensibilità, di attenzione e d’intelligenza che, attraverso le stagioni dell’arte, approdano a una visione schiettamente attuale dove le premesse concettuali del lavoro sono inscindibili dalla bellezza dell’espressione pittorica e dalla qualità della mano.

    La GAM intende dare nuovo spazio d’attenzione all’odierna pittura che si sta dimostrando arte densa di pensiero e di sensibilità insieme. Nelle opere di Tocca, nei tagli e negli affondi del suo sguardo che sembra voler solo aderire alla superficie delle cose, alla più volatile e minuta percezione, emerge non solo la lezione del primo paesaggismo en plein air di Sette e Ottocento, ma tutta la densa stratificazione del tempo. Quel tempo plurimo che appartiene tanto al mondo osservato – con le indelebili tracce della storia – quanto all’atto del vedere da cui Tocca non intende cancellare tutti gli sguardi esercitatisi sulla natura prima del suo, ma sa sorvegliarne la presenza, riconoscerne l’azione e la memoria.

    Il titolo Repoussoir è un termine tratto dalla pittura di paesaggio. Dal Seicento olandese alla pittura romantica tedesca, elementi posti in primo piano, come tronchi d’albero o massi, avevano la funzione di spingere, rilanciare lo sguardo dell’osservatore verso la profondità del dipinto e verso il centro dell’immagine.  Con funzione simile, in alcuni noti paesaggi della storia dell’arte – da Friedrich a Courbet, ad esempio – degli osservatori sono ritratti di spalle, volti verso il panorama. A volte si tratta dell’artista stesso. Michele Tocca ritraendo di spalle la propria giacca da pioggia, usata per le sue sedute en plein air, trasforma sé stesso – o meglio, l’oggetto che più lo rappresenta – in un repoussoir, isolato in una sorta di umile maestà: un oggetto carico di memoria ma anche un dispositivo della visione pittorica la cui presenza trasforma l’opera in una riflessione sui codici dell’arte.

  • Fino al 30 settembre 2022

    TUTTE LE GUERRE. Fotografie 1998-2019

    FRANCO PAGETTI 

    Vent’anni di conflitti raccontati in più di 250 foto da uno dei più autorevoli fotoreporter internazionali al Palazzo Senza Tempo di Peccioli (PI)

     

    Afghanistan, Kosovo, Timor Est, Kashmir, Palestina, Sierra Leone, Sud Sudan, Siria: Franco Pagetti, uno dei più autorevoli fotoreporter internazionali per Time, The New York Time, Le Monde, The Independent, ha trascorso vent’anni a fotografare la guerra confrontandosi ogni volta con la violenza e l’arbitrarietà dei conflitti.

    La mostra “Tutte le guerre. Fotografie 1998-2019” al Palazzo Senza Tempo di Peccioli (PI), inaugurata nell’ambito della kermesse Pensavo Peccioli curata da Luca Sofri, conduce i visitatori proprio dentro l’orrore della guerra, per dimostrarne la sua orribilità ed inutilità.

    Il collage di 250 foto del grande parallelepipedo centrale vuole testimoniare le sofferenze subite dalle vittime dell’assurdità della guerra, vuole raccontare l’annullamento dell’identità delle cose, degli spazi, della cultura, della storia e dell’educazione che ogni conflitto provoca, vuole infine mostrare l’umanità delle persone. In mostra, le foto della guerra in Iraq, dove Pagetti ha vissuto per sei anni, dal 2003 al 2008, raccontando la caduta del regime di Saddam Hussein, l’ascesa dei gruppi terroristici e insurrezionalisti e la guerra civile. Ma anche le storie e le immagini dall’Afghanistan che trasmettono la sua capacità empatica e l’assenza di pregiudizio. E poi, in una sala dedicata, The Veils of Aleppo, sulle tende di Aleppo, realizzato nel 2013, il reportage con cui Pagetti ha cambiato il modo di fotografare la guerra: i soggetti delle immagini non sono persone morte, ferite o armi, ma le tende colorate che vedeva per strada, rivelatrici della vita degli abitanti di una città devastata dai bombardamenti. Le tende a righe, un tempo tende da sole, sollevano una riflessione su come è cambiato il loro utilizzo: se prima erano un oggetto quotidiano per proteggere la privacy di una famiglia, o ripararsi dal sole, adesso sono cucite insieme dalle donne e messe in mezzo alle strade per proteggere gli uomini della famiglia dai cecchini. La serie di fotografie rappresenta “Una reazione umana – racconta Franco Pagetti – per proteggermi dall’orrore del mondo in cui camminavo: concentrarsi su un elemento di bellezza nel caos, o creare una distanza tra me e gli eventi. Io proteggevo la mia stabilità mentale, i siriani la loro vita”.  

    TESTO CRITICO

    L’invasione russa dell’Ucraina, le sue stragi e le sue distruzioni, le persone che sono vittime, sono di nuovo raccontate dalle immagini dei fotoreporter di guerra, anche in questi tempi di social network, influencer e cambiamenti nella comunicazione di ogni cosa. E sono immagini che da una parte sembrano sempre le stesse, per ogni guerra, e dall’altra rinnovano il loro effetto e la loro capacità di mostrare cose terribili e incredibili e che pensavamo lontane: lontane nel tempo o lontane nello spazio. Ma le guerre non hanno mai smesso di essere combattute e di essere usate per avidità, prepotenza, ignoranza, e niente come le immagini dei fotoreporter ha cercato di ricordarcelo anche negli anni passati, quando la guerra in Europa ci sembrava impensabile. Le foto di Franco Pagetti, fotoreporter che ha seguito alcune delle guerre recenti più lunghe e gravi, sono fra quelle che con più insistenza e professionalità hanno anticipato quello che saremmo tornati a vedere quest’anno. 

    Luca Sofri, curatore di Pensavo Peccioli

    BIOGRAFIA DI FRANCO PAGETTI

    Franco Pagetti, nasce a Varese nel 1950. Studia chimica a Milano. Si avvicina alla fotografia nel 1980: inizialmente come assistente della fotografa di architettura Carla De Benedetti ma in seguito inizia a produrre immagini per i mondi della moda e commerciale. Nella sua prima vita da fotografo, da metà anni Ottanta a metà anni Novanta, collabora con i giornali italiani Vogue, Elle, Marie Claire, Amica. Mentre firma campagne pubblicitarie internazionali, nel 1988 realizza il suo primo reportage sulle donne torturate dal regime cileno. Nel 1997, decide di dedicarsi esclusivamente al fotogiornalismo.

    A quasi cinquant’anni inizia la sua seconda vita, che nel 2007 lo vede diventare membro della nota agenzia VII, di cui fa tuttora parte. Copre le zone di conflitto più calde: nel 1998 è in Sudan del Sud e in Afghanistan, dove torna nel 2001, nel 2009 e nel 2010; nel 1999 è in Kosovo e a Timor Est, nel 2000 e nel 2001 è in Kashmir; nel 2000 in Sierra Leone e nel 2001 e 2002 in Palestina. Le sue fotografie di guerra ritraggono esseri umani in condizioni estreme e si fanno testimonianza di atti di incredibile eroismo. Ma anche di enormi brutalità. I suoi reportage vengono pubblicati in America su Newsweek, The New York Times, The New Yorker, Stern, Sunday TimesVogue America e in Europa su Le Figaro, Paris Match, Le Monde, The Times of London, The Independent. Per il settimanale TIME, da gennaio 2003 fino a dicembre 2008 è in Iraq dove, grazie al suo intuito, arriva già tre mesi prima dell’invasione americana di Baghdad che segna l’inizio della guerra. Le sue immagini dal fronte sono uno fra i più accurati e completi reportage dall’Iraq, catturano gli orrori della guerra, i saccheggi, le battaglie, la formazione di gruppi di ribelli e di terroristi: l’inesorabile discesa verso una sanguinosa guerra civile nonostante la flebile speranza di rinascita dopo la caduta del regime di Saddam Hussein. Nel 2012, al Pictures of the Year International Contest gli è stato conferito l’Award of Excellence e, sempre nel 2012 ha ricevuto una nomination agli Emmy Awards for News & Documentary, per il documentario: DRC, Starved For Attention. New York. Nel 2012 e nel 2013 viene premiato al PX3 PRIX DE LA PHOTOGRAPHIE PARIS e la regista Aeyliya Husain gira un film su di lui, Shooting War, presentato al Tribeca Film Festival. Le sue fotografie sono state esposte in numerose mostre nazionali e internazionali e fanno parte di collezioni private e istituzionali.

  • 7 luglio – 18 settembre 2022
    Palazzo Martinengo Cesaresco Novarino, via dei Musei 30, Brescia

    La Fondazione Provincia di Brescia Eventi è lieta di presentare la mostra Clouds Never Say Hello, grande personale dell’artista bresciano Gabriele Picco a cura di Claudio Musso negli spazi di Palazzo Martinengo Cesaresco Novarino. L’esposizione – organizzata in collaborazione con Provincia di Brescia, Fondazione Provincia di Brescia Eventi e Fondazione Brescia Musei nell’ambito del progetto Una Generazione di Mezzo – si sviluppa su due piani dello storico edificio e presenta una selezione articolata di opere inedite che conducono gli spettatori in un viaggio immersivo nell’immaginario dell’autore.

    Picco riesce ad affrontare con leggerezza temi delicati come la morte, il sesso, la solitudine dell’uomo contemporaneo, mettendo spesso in luce le contraddizioni della nostra società, e mostrando come la vita e il mondo siano un immenso teatro visionario.

    Ecco per esempio The wall, la stanza le cui pareti sono state completamente ricoperte da 18mila biscotti savoiardi, un intervento dell’artista che modifica la percezione sensoriale dello spazio e che insieme segna l’accesso al nucleo centrale della mostra. Una sala di decompressione ricca di reminiscenze infantili, via di evasione fiabesca non priva però di elementi sinistri, implicito al muro è infatti il riferimento all’incomunicabilità e a tutti quei muri che ancora abitano il mondo.

    Le nuvole, di pasoliniana memoria, simbolo di leggerezza, di sospensione e di poesia, sono un tema ricorrente nel lavoro di Gabriele Picco. Visibili e presenti sia nella storia dell’arte che nella vita di tutti giorni, al contempo così impalpabili ed evanescenti, rappresentano metaforicamente l’ambiguità e la contraddizione che regnano nell’immaginario dell’autore bresciano.

    Due delle sale della mostra sono dedicate proprio alle nuvole. In una le ritroviamo sul portapacchi di modelli in scala di auto storiche del secondo Novecento. Sono le automobili diventate vere e proprie icone, come la Dyane o la Citroen DS, che fanno seguito alla prima opera di questa serie intitolata Cloud, che Picco realizzò nel 2005 con una vera Fiat 500 come scultura permanente nel Parco delle Madonie in Sicilia.

    Nell’altra sala lo spettatore incontrerà, sospese a mezz’aria, quelle che potrebbero essere descritte come cinque piccole poesie. Nuvole di vari colori scolpite in marmi diversi, dal nero portoro, al bianco statuario di Carrara, al blu Bahia, al rosa del Portogallo fino alla pietra dorata. Su ogni nuvola scorgerà, in un sottile rimando alla pittura tonale, un piccolo volatile imbalsamato dello stesso colore della roccia. Qui lievità e gravità si incontrano creando un ossimoro visivo e concettuale.

    In una terza sala si trova Il collezionista di amore: un omino in marmo rosa del Portogallo il cui lunghissimo fallo è ornato da anelli con diverse pietre preziose. La sessualità esplicita trattata con linguaggio iperbolico, sia verbale che visivo, è tra i temi ricorrenti nel lessico dell’artista che fonde elementi Pop con quelli della scultura classica. A seguire una lapide in granito nero che commemora una nuvola svanita. La poesia e l’ironia tagliente, che a volte sfiora un cinico sarcasmo, è una delle modalità con cui Picco affronta nelle sue opere argomenti complessi e delicati come la vita e la morte, il pubblico e il privato, la religione e i tabù, senza lesinare riferimenti all’attualità.

    Nella sala più grande i visitatori sono accolti da un’installazione parietale di nove metri per quattro: una carta da parati composta da disegni che tagliano trasversalmente tutta la sua produzione in un cortocircuito continuo tra parole e immagini.

    La scrittura, sia quella breve di natura quasi poetica che gioca con il linguaggio scarno e ficcante dello slogan pubblicitario, sia quella più verbosa, automatica, che si colloca tra il flusso di coscienza e la letteratura d’avanguardia, è un altro tratto distintivo del modus operandi di Picco che, come uno dei personaggi dei suoi romanzi, vede la vita e le esperienze che la attraversano come un grande teatro surreale.

    Surreale è anche l’opera Eternal love: due mani in lattice che sbucano da una parete, con i palmi attraversati dai gambi di due rose rosse i cui vasi poggiano su due mensole di legno grezzo. Un chiaro riferimento a Eros e Thanatos in una nuova forma contemporanea di crocifissione.

    Nell’ultima sala la dimensione onirica trova la sua rappresentazione in una scultura composta da un letto di legno antico, dal cui materasso si innalza un albero dai rami spogli, abitati da un solitario canarino rosso. L’immagine, che richiama l’idea della nascita, della morte e del sogno, diventa anche metafora della solitudine e della capacità dell’essere umano di rinascere costantemente.

    La mostra sarà accompagnata da un corposo volume monografico edito da SKIRA in cui saranno raccolte attraverso il filtro di specifiche sezioni tematiche centinaia di opere prodotte dall’artista tra il 1998 e il 2022, un settore specifico sarà dedicato in forma di cahier al disegno e la parte testuale sarà composta da un saggio firmato dal curatore Claudio Musso, una conversazione tra l’artista e Davide Ferri, note biografiche e bibliografiche.

  • Dal 22 Giugno 2022 a 13 Novembre 2022 in VideotecaGAM

    Prosegue il ciclo di esposizioni dedicate alla storia del video d’artista italiano tra anni Sessanta e Settanta. La mostra, sesto e ultimo appuntamento della collaborazione con l’Archivio Storico della Biennale di Venezia, si compone di tre diverse manifestazioni dell’immagine di Apollo che Kounellis mise in opera, tra il 1972 e il 1973, nascondendo il proprio volto dietro una maschera di gesso recante le fattezze del dio.

    La prima, del 1972, ebbe luogo all’Attico di Roma. Ad essa, in quanto immagine di una soglia, è affidato l’inizio del percorso: in uno scatto di Claudio Abate, Kounellis appare a cavallo, all’interno di una sala. La testa dell’animale avanza verso l’osservatore, oltre la porta. È un’immagine attraversata da inquietudine e tensione per i molti tratti di ambiguità che ne emergono: un cavallo all’interno della sala di un palazzo, la classicità della maschera unita alla contemporaneità degli abiti del cavaliere, l’aprirsi della visione e il sovrapporsi della porta all’imponente presenza che inibisce il passaggio. Tuttavia, il più rimarcabile segno di contraddizione è dato dalla dimensione temporale dell’apparizione: da un lato c’è la vita animale, il respiro del cavallo, il calore e l’odore del suo corpo, la sua incapacità a restare immobile; dall’altro c’è il bianco assoluto del gesso, la fissità imperturbabile della maschera, la terribilità di uno sguardo vuoto, il silenzio solenne.

    L’animale vive nell’ora, il dio si mostra nella continuità del suo essere. L’opera abita uno spazio indecidibile tra le due temporalità. Ricongiunge il divenire all’immutabile, il presente all’eterno e sovrappone la sua contemporaneità al passato dell’arte.

    La seconda, del 1973, è una diversa fotografia scattata in occasione della performance di Kounellis presso la galleria La Salita di Roma. L’artista siede al centro dell’inquadratura con la maschera di Apollo sul volto. Davanti a lui, su un tavolo, sono disposti i frammenti di una scultura classica che appare come il corpo smembrato del dio. Sopra il torso sta appollaiato un corvo impagliato. Alla sinistra di Kounellis un suonatore di flauto esegue musiche di Mozart e alla sua destra c’è una finestra aperta. Anche in questa apparizione la tensione è creata dall’intreccio di opposti. La ieratica presenza del volto di Apollo si confronta con l’immagine di morte della scultura disgregata e del corvo il cui corpo imita la vita ma ne è privo, al contempo, però, si unisce al corpo vivo di Kounellis che perpetua la divinità assumendone le fattezze.

    Questo ciclo di morte e di rinascita trova un contrappunto, ai due lati, dalla presenza del flautista e della finestra, forse immagini di due diversi soffi vitali e di due diversi spazi che vanno mescolandosi: quello interno, abitato dall’arte e dal dio, risuonante di musica, e quello all’esterno, oltre il recinto sacro, immerso nella quotidianità.

    La terza e ultima opera è un videoNo title del 1973, proveniente dall’Archivio Storico della Biennale di Venezia, l’unica opera video che Kounellis abbia mai realizzato. La sua visione, nel piccolo percorso di mostra, avviene oltre una tenda nera, in una stanzetta ricavata all’interno dello spazio espositivo perché i visitatori entrino uno alla volta. È da soli che ci si reca a interrogare l’oracolo. Da un monitor, posto più in alto dell’usuale, la maschera di Apollo appare nella sua inscalfibile immobilità. Kounellis la regge con la mano destra, mentre nella sinistra tiene una lampada a petrolio accesa.

    Esiste il tempo misurabile del video, i 25 minuti della sua durata fisica; esiste il tempo storico in cui l’artista si offrì all’inquadratura fissa della telecamera, il tempo narrato dalla foggia della camicia che indossa; esiste infine il tempo perenne, il ciclo incorrotto della divinità antica che da sempre presiede alla manifestazione della luce e dell’arte e di cui l’opera di Kounellis non è che una delle infinite epifanie.

     

    ORARI
    NUOVO ORARIO

    Martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato e domenica dalle 10 alle 18
    Lunedì chiuso
    Le biglietterie chiudono un’ora prima

    I musei garantiscono una visita in piena sicurezza, nel rispetto delle normative anti-Covid
    La prenotazione è consigliata ma non obbligatoria al numero 011 5211788 o via mail a ftm@arteintorino.com
    Prevendita: TicketOne
    Come di consueto, GAM, MAO e Palazzo Madama, nel rispetto di tutte le linee guida ministeriali, riaprono mettendo in atto tutte le misure necessarie a garantire una visita in completa sicurezza.

    BIGLIETTI
    Collezioni permanenti

    Intero: € 10
    Ridotto: € 8
    Gratuito: minori 18 anni, Abbonamento Musei Torino, Torino + Piemonte card
    E’ sospesa la gratuità del primo martedì del mese

    Le tariffe possono subire variazioni in presenza di mostre temporanee.

  • FLAVIO FAVELLI – I Maestri Serie Oro
    da 26 Maggio 2022 a 6 Novembre 2022

    La GAM di Torino è felice di presentare nelle sale della Wunderkammer I Maestri Serie Oro di Flavio Favelli, a cura di Elena Volpato.

    Il progetto è vincitore dell’avviso pubblico PAC2020 – Piano per l’Arte Contemporanea, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.

    L’esposizione presenta un’unica opera composta dai 278 fascicoli monografici della nota serie I Maestri del Colore della Fratelli Fabbri Editori, uscita nelle edicole italiane tra il 1963 e il 1967. Si trattò di un fenomeno culturale di prima grandezza che rivoluzionò il mercato editoriale negli anni del boom economico. I fascicoli rappresentarono per molte famiglie italiane un oggetto simbolico, una dichiarazione di appartenenza a una fascia sociale in crescita, attraversata da un desiderio di cultura e di benessere intrecciati insieme.

    Flavio Favelli ha lavorato su ciascuna delle iconiche copertine, interagendo con la loro eleganza formale, con il loro equilibrio tra grafica e taglio fotografico dei particolari pittorici. Ha utilizzato una o più cartine dorate dei Ferrero Rocher per occultare i volti dei ritratti, le scene aneddotiche, le porzioni di quadri, affreschi e mosaici dove campeggia la figura umana, dove gli sguardi dipinti sembrano cercare la risposta e la complicità dello sguardo degli osservatori. Favelli riporta le riproduzioni delle grandi opere d’arte ad uno stato di impenetrabilità, quasi di chiusa sacralità: è un gesto che mescola la cura all’iconoclastia, quasi fosse necessaria una nuova ricarica del senso per delle immagini forse troppo note, persino troppo ammiccanti nella loro conquistata emblematicità.

    Favelli però, se da un lato cela parti di opere dietro il bagliore dell’oro, dall’altro apre a una visione panottica lo svolgimento della storia dell’arte così come l’avventura editoriale Fabbri fu capace di raccontarla. I 278 fascicoli/collages sono esposti in tre file ad abbracciare interamente lo spazio della Wunderkammer della GAM. La disposizione accoglie il visitatore come nel perimetro di una basilica dove il susseguirsi regolare delle riproduzioni e dei nomi degli artisti, tutt’attorno, restituisce una sorta di ideale ritratto di gruppo dove ciascun ‘quadro’ rappresenta il compiersi di una diversa misura, di un diverso canone, di una diversa maniera e sensibilità.

    Poter vedere tutte le copertine della serie dispiegate in un’unica sala sembra esaltare lo spirito enciclopedico cui l’impresa editoriale dei Fratelli Fabbri tese, ma la scelta di Favelli di spezzare le linee del disegno, di complicare la bidimensionalità della pittura, di nascondere il senso di completezza e perfezione che emana da molte di quelle opere, lascia intuire un rapporto più contrastato con la storia e il valore del passato. Esprime un’inquietudine estetica tutta contemporanea, per la quale la pienezza di senso e di forma non è mai data e ogni Maestro è allo stesso tempo riconosciuto e obliterato, oggetto di una celebrazione sincera ed insieme finta, come finta è la foglia d’oro di Favelli: luccicante, ma di carta, d’aspetto prezioso, ma prelevata da una scatola di praline.

    L’opera I Maestri Serie Oro, che entra a far parte delle collezioni del museo, rappresenta un nuovo sviluppo del lavoro di Favelli che negli ultimi anni ha più volte indagato il tema dell’oro sotto molteplici forme, rispecchiando il proprio animo nella lucentezza opaca e cieca di questo materiale che è andato prelevando da latte di biscotti, da fondi di specchi, da cartelli pubblicitari di gelati: una lucentezza pervasiva, da Eldorado, in cui la nostra cultura si specchia alla ricerca di un bagliore di cui ammantarsi proprio mentre si va offuscando.

    La mostra è accompagnata da una pubblicazione edita e distribuita da Viaindutriae

    Si ringrazia la Fondazione Ferrero Onlus per la collaborazione e il sostegno.

     

    ORARI
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    Martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato e domenica dalle 10 alle 18
    Lunedì chiuso
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    La prenotazione è consigliata ma non obbligatoria al numero 011 5211788 o via mail a ftm@arteintorino.com
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    Collezioni permanenti

    Intero: € 10
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    Gratuito: minori 18 anni, Abbonamento Musei Torino, Torino + Piemonte card
    E’ sospesa la gratuità del primo martedì del mese

    Le tariffe possono subire variazioni in presenza di mostre temporanee.

  • Dal 7 al 10 luglio, in occasione dell’incontro europeo dei Giovani della Comunità di Taizé in svolgimento a Torino, GAM, MAO e Palazzo Madama propongono ai partecipanti all’evento l’ingresso gratuito alle collezioni e, nel caso di Palazzo Madama, anche alle mostre in corso, “Da San Pietro in Vaticano. La tavola di Ugo da Carpi per l’Altare del Volto Santo” e “Invito a Pompei”.

     

    Sabato 9 luglio alle ore 22.30, il direttore di Palazzo Madama, Giovanni Carlo Federico Villa, accoglierà in Museo l’Arcivescovo di Torino, Monsignor Roberto Repole, Monsignor Adam Piotr Bab, Vescovo Ausiliare dell’Arcidiocesi metropolitana di Lublin (Polonia), e Frère Alois, Priore della comunità dei monaci di Taizé, per una visita guidata speciale alla prestigiosa Pala d’altare di Ugo da Carpi con la Veronica che dispiega il velo del Volto Santo tra gli Apostoli Pietro e Paolo – un’opera di straordinaria importanza per arte e fede, proveniente dalla Fabbrica di San Pietro in Vaticano.

     

    Inoltre, sempre nella serata di sabato 9 luglio dalle ore 22.30 alle 24, i giovani della Comunità di Taizé avranno l’opportunità di ammirare la pala d’altare di Ugo da Carpi guidati dal professor Villa, che illustrerà loro non solo i particolari di un’opera di formidabile interesse tecnico e artistico, ma anche i risultati di uno studio articolato e complesso, che, grazie al lavoro di figure professionali di altissimo profilo e a scrupolose ricerche, hanno permesso di svelare la storia e la tecnica d’esecuzione dell’opera.

     

    La pala d’altare per l’ostensione del Volto Santo, realizzata per la Basilica vaticana in occasione del Giubileo del 1525, ha lasciato eccezionalmente la Fabbrica di San Pietro in Vaticano – dove è abitualmente collocata – per essere esposta a Palazzo Madama, dove sarà visibile fino al 29 agosto. Nel suggestivo progetto espositivo torinese, la pala di Ugo da Carpi è significativamente collocata sotto un affresco settecentesco raffigurante l’ostensione della Sacra Sindone, in un dialogo ideale fra arte e devozione che regala ai visitatori la possibilità di ammirare le due grandi reliquie della Cristianità.

  • Dal 9 giugno 2022 all’8 gennaio 2023
    In collaborazione con
    Tony Cragg
    Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea, Torre Pellice/Torino
    Skulpturenpark Waldfrieden, Wuppertal, Germania

    Tre altissime sculture in bronzo dalle insolite forme di colonne sinuosamente tortili, con spiralo ellittiche che si elevano verso il cielo in un equilibrio che pare precario, svettano a Torino in corso Sebastopoli, proprio di fronte all’ingresso dello Stadio Olimpico, l’ex stadio Comunale, così ridenominato durante le Olimpiadi invernali di Torino 2006.

    Per quella occasione la triplice installazione, intitolata Punti di Vista, era stata realizzata su commissione della Fondazione De Fornaris a simbolo dell’evento olimpico da Tony Cragg, uno degli artisti contemporanei inglesi più affermati al mondo, nato a Liverpool nel 1949 e dal 1977 residente in Germania a Wuppertal, dove ha realizzato un grande parco di sculture in cui sono visibili esposizioni e opere di tanti celebri artisti contemporanei.

    Dopo 16 anni Cragg ritorna nel territorio torinese, invitato da Guido Curto direttore generale del Consorzio delle Residenze Reali Sabaude, per realizzare alla Reggia di Venaria una mostra che dal 9 giugno 2022 all’8 gennaio 2023 presenta una selezione di dieci sculture create tra il 1997 e il 2021, ambientandole all’interno del percorso espositivo permanente della Reggia, a cominciare dalla Corte d’Onore, proseguendo nel Parco Alto dei Giardini della Reggia, per arrivare fino all’atrio delle Scuderie Juvarriane.

    Opere di grandi dimensioni, plasmate usando svariati materiali – dal bronzo al legno, dalla vetroresina all’acciaio – tutte connotate dalle tipiche linee mosse e sinuose, che paiono modellate su un gigantesco tornio di vasaio, si riconnettono al genius loci della Reggia in una sorta di ridefinizione postmoderna dello stile Barocco e Rococò.

    Il lavoro di Tony Cragg analizza le molteplici relazioni esistenti tra l’essere umano e l’ambiente. Usufruendo di un’ampia selezione di materiali e di tecniche scultoree, l’artista tematizza la complessa connessione tra la figura, l’oggetto e il paesaggio, che per Cragg include sia sistemi geologici e microbiologici che contesti urbani e industriali.

    Il punto focale dell’operare artistico di Tony Cragg è inoltre incentrato su un incessante processo di esplorazione delle possibilità del materiale e di rimodellamento del mondo che ci circonda.
    L’artista afferma: “ci sono molte più cose che non esistono di quelle che esistono”, riferendosi a una fonte di situazioni che sono ancora oltre la nostra percezione.

    Per Cragg la scultura è un metodo per aprire questo enorme potenziale a nuove forme e significati, ai sogni e ai linguaggi ad essi associati.

    Parallelamente alla mostra di Tony Cragg viene presentata l’opera Dove le stelle si avvicinano di una spanna in più di un altro grande maestro contemporaneo già presente alla Venaria, Giovanni Anselmo. Questa scultura, pur essendo da diversi anni esposta in permanenza al centro del Gran Parterre dei Giardini, non aveva mai avuto ad oggi una presentazione ufficiale.

    Giovanni Anselmo, artista di straordinaria levatura, nasce nel 1934 a Borgofranco d’Ivrea, ma da sempre vive e lavora a Torino. Esponente di spicco dell’Arte Povera e figura centrale di quel gruppo di artisti, in larga maggioranza torinesi (come Mario e Marisa Merz, Giuseppe Penone e Gilberto Zorio), assurti a fama internazionale a cominciare dagli anni ’70 grazie all’impegno intellettuale del compianto critico d’arte e curatore Germano Celant, Anselmo all’età di 88 anni merita un doveroso omaggio. Questo suo lavoro, costituito da sei gigantesche lastre di granito nero, con sopra scandita e incisa in profondità la scritta che dà origine al titolo, rimanda a una sorta di  bradisismo alto approssimativamente quanto la misura di una mano aperta; l’opera, su cui si può salire, consente alle stelle, che notte e giorno si avvicendano sulla sua verticale, di avvicinarsi di una spanna in più.

    Con questa nuova mostra riprende e si rafforza quel dialogo tra la Residenza di Venaria e l’arte contemporanea che era stato avviato dal primo direttore della Reggia, Alberto Vanelli, con il Giardino delle Sculture Fluide di Giuseppe Penone: nucleo fondante del progetto della Reggia contemporanea.

     

    INFORMAZIONI E BIGLIETTERIA:
    DOVE: Reggia di Venaria
    QUANDO: da giovedì 9 giugno 2022 a domenica 8 gennaio 2023
    COME: mostra compresa nel percorso di visita della Reggia e dei Giardini
    Per ulteriori informazioni: lavenaria.it

  • Con “Oliviero Toscani. Professione fotografo” Milano rende omaggio a un suo concittadino, un artista dell’immagine che ha cambiato per sempre il mondo della comunicazione con campagne rivoluzionarie e indimenticabili.

    Questa mostra ripropone a Palazzo Reale il tributo realizzato il 28 febbraio scorso. Nel giorno del suo ottantesimo compleanno, Milano s’era risvegliata con la meraviglia negli occhi grazie alle immagini di Oliviero Toscani che tappezzavano tutta la città.

    Un regalo per lui e per la città, da riammirare per tutta l’estate nel museo più prestigioso di Milano, Palazzo Reale. La retrospettiva di “Oliviero Toscani. Professione fotografo”, curata da Nicolas Ballario, promossa e realizzata dal Comune di Milano, Palazzo Reale, Arthemisia Arte e Cultura, racconta per immagini sessant’anni di carriera.

    Un viaggio che parte dai lavori iniziali, meno conosciuti, e omaggia i successi internazionali collezionati da uno dei fotografi più acclamati al mondo.

    La retrospettiva mette in evidenza l’incredibile talento artistico di Oliviero Toscani e il suo linguaggio capace di contaminare mondi e codici, per dare ancora più risalto a tematiche sociali quali l’uguaglianza tra le diverse etnie, la guerra, la lotta all’omofobia, la sensibilizzazione all’AIDS.

    Milano riconosce in Oliviero Toscani numerose doti alla base dell’apprezzamento globale per la nostra città: il coraggio, l’intraprendenza, l’attenzione ai cambiamenti sociali, la creatività, la capacità di rendere arte i prodotti di uso quotidiano e il talento di regalare bellezza in modo inaspettato.

  • “Quando si dice: la tale o tal’altra produzione scenica è foggiata sui figurini di Caramba il pubblico sa già per lunga prova che assisterà ad una festa di colori e di luce; che avrà dinanzi agli occhi quadri vivi e veri…” così scriveva nel 1907 Giuseppe Adami.

    La Fondazione Accorsi-Ometto rende omaggio alla bellezza, intesa come eleganza delle forme, preziosità dei tessuti e cura dei particolari, con una splendida mostra dedicata al ‘Mago’ dei costumi teatrali Luigi Sapelli, in arte Caramba.
    L’esposizione mette in risalto l’altissimo livello della produzione del costumista piemontese, attraverso una quarantina di costumi, scelti tra gli oltre tremila appartenenti alla collezione Devalle di Torino. Tra i pezzi più iconici del lavoro della Casa d’Arte Caramba, fondata nel 1909 a Milano, sono esposti: preziosi esemplari per il dramma d’annunziano Parisina e per la prima della Turandot del 1926 con la direzione di Toscanini alla Scala di Milano; i costumi rinascimentali realizzati con i preziosi velluti di Mariano Fortuny e i costumi per Elisa Cegani e Luisa Ferida, firmati da Gino Carlo Sensani, nel film del 1941 La corona di ferro di Alessandro Blasetti.
    In mostra si trovano anche diversi tessuti della Manifattura Mariano Fortuny, a sottolineare la collaborazione tra i due artisti iniziata all’indomani della creazione della Casa d’Arte Caramba, una vera e propria fucina del “Mago” – così come spesso era definito – in cui si riunivano diverse professionalità, dai sarti, alle ricamatrici, ai calzolai, ai fabbri, in grado di dar vita a costumi di eccezionale valore artistico.
    Magnifici, poi, i bozzetti della collezione della Sartoria Teatrale Pipi di Palermo, dettagliatissimi da un punto di vista pittorico rispetto alla consueta produzione di Caramba che spesso ne disegnava di meno particolareggiati.

    Le ricerche e gli studi intrapresi per la realizzazione della mostra hanno permesso di fare entusiasmanti scoperte: per esempio, lo splendido manto “piumato” esposto in mostra, che fino a oggi non si sapeva per quale opera fosse stato realizzato, è stato finalmente assegnato alla Parisina di Pietro Mascagni con libretto di Gabriele D’annunzio. Indossato nel 1913 dalla soprano Tina Poli Randaccio durante la prima rappresentazione dell’opera, fu poi esposto nel 1987 a Venezia per la mostra “Fortuny e Caramba”. Grazie a un confronto con i bozzetti della collezione della Sartoria Teatrale Pipi di Palermo, anche la giornea maschile appartiene al corpus della medesima opera. E ancora, il manto usato da Elisa Cegani nel film La corona di ferro è stato in seguito indossato da Maria Callas per il Nabucco al Tetro San Carlo di Napoli il 20 dicembre del 1949.
    Per quel che riguarda il film La corona di ferro è interessante notare come per costumi che richiedevano l’eccellenza in materia di taglio, ricamo, decorazione e tinture dei tessuti, ci si rivolgesse ancora, dopo la morte del Maestro avvenuta nel 1936, ai laboratori della sua Casa d’Arte a Roma.

    Caramba dedicò tutte le sue energie creative al fine di rimodernare la concezione del costume per lo spettacolo: creò infatti capolavori che, pur essendo espressione della sua epoca, prendevano vita da uno studio attento e filologico del tempo, del contesto e del personaggio che dovevano rappresentare. Il suo stile era rigorosissimo: accanto a un impianto storicistico estremamente fedele sovrapponeva una freschezza di motivi e una dovizia di particolari che rendevano ogni figurino un’opera d’arte autonoma e a sé stante. Fondamentali per la creazione dei suoi costumi erano i bozzetti, che disegnava in bianco e nero e su cui applicava ritagli di tessuto per evitare che la sartoria facesse errori di interpretazione cromatica, e, soprattutto, la  creazione di stoffe da lui stesso pensate, stampate, tagliate e decorate.
    Lavoratore instancabile e realizzatore di sogni, il “Mago” riesce ancora oggi a parlarci della maestria del fare e della ricerca della perfezione anche nei più nascosti e minuti particolari.

  • Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica propone, mercoledì 22 giugno alle ore 16.45, la conferenza Da Veronica a “vera icon”: la devozione al Volto di Cristo nel Medioevo tra Oriente e Occidente con il professor Gian Maria Zaccone, direttore del CISS – Centro Internazionale di Studi sulla Sindone.

    Due tradizioni, quella orientale del Mandylion e quella occidentale della Veronica si intrecciano fortemente, con esiti diversi nella storia della spiritualità, sebbene entrambe di forte impatto nella evoluzione della ricerca e della Pietà verso la vera immagine di Cristo.

    All’epoca di Innocenzo III l’immagine cosiddetta della “Veronica” –  presente da tempo in Roma e oggetto di culto crescente – raggiunge il suo status di immagine-reliquia universale del volto di Cristo. L’immagine della Veronica racchiude una doppia valenza, che impronterà la sua iconografia, che la vede ora come immagine del Cristo vittorioso e ora di quello paziente, che l’avvicina all’immagine orientale del Mandylion.

    Ciò si riflette anche sulle leggende circa la sua origine, in una versione donata da Gesù alla mitica figura di Veronica che desiderava ardentemente avere un’immagine del suo maestro e guaritore, ed in un’altra realizzata durante la passione. Sarà quest’ultima ad imporsi nell’ambito occidentale. Per molto tempo gli studiosi si sono interrogati su quale delle due leggende – Veronica e Mandylion – si fosse modellata l’altra. Al di là della questione storica è fondamentale prendere atto come, da un ben preciso punto della storia della Chiesa, con sempre maggiore interesse la Cristianità anela ad identificare le fattezze umane di Cristo. Il Mandylion in Oriente e la Veronica in Occidente in realtà rappresentano due fondamentali espressioni dello stesso Volto, recepite secondo le più profonde attese delle diverse spiritualità. Ne è palese testimonianza il ruolo della Veronica nella pietà medievale, ed in particolare il significato enorme rivestito nel Giubileo del 1300. Le relazioni dei pellegrini, i testi letterari, da Dante a Petrarca, le cronache liturgiche segnalano in maniera inequivocabile l’emozione della presenza di quel volto a Roma la cui storia ancora oggi risulta di difficile ricostruzione e a tratti controversa.

     

    Gian Maria Zaccone,  storico, Direttore del Centro Internazionale di Studi sulla Sindone di Torino. Laureato in Storia del Diritto si è specializzato nello studio dei processi per i percorsi di canonizzazione nel medioevo e nella storia della Pietà. In questo ambito ha approfondito il tema della ricerca della raffigurazione di Cristo con particolare attenzione agli esiti sindonici. È titolare di un corso universitario di Storia della Sindone e delle reliquie di Cristo nell’ambito della Pietà.

     

    Info: ingresso libero fino a esaurimento posti

    Prenotazione facoltativa: t. 011 4429629 (da lunedì a venerdì, orario 9,30-13 e 14-16)

    e-mail: madamadidattica@fondazionetorinomusei.it

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